27 marzo 2012

NAVIGLI E ALTRE ACQUE MILANESI: DA DOVE PARTIRE?


Nessuna pretesa d’inserirmi nel simpatico, lungo dialogo tra Jacopo Gardella e Gianni Beltrame a proposito dei navigli. Provo solo a proporre qualche considerazione a margine, a sostegno convinto delle tesi dell’urbanista, nonostante il consenso di cui sembra godere in questo periodo la tesi opposta, favorevole alla riapertura dei navigli, “com’erano e dov’erano”.

Potrei ancora capire l’ipotesi di mettere a concorso il tema della cerchia interna dei navigli, dalla Martesana alla Darsena, per il recupero in chiave moderna di una memoria storica essenziale per la città di Milano, nel quadro di un intervento complessivo di drastica riduzione del traffico veicolare nel centro storico, di riorganizzazione del servizio pubblico e di conseguente ridisegno urbano, con recupero appunto di una via d’acqua storica. Potrei capirlo a una condizione: la rinuncia a priori alla navigabilità. E questo non solo per evitare il rifacimento di tutti i ponti delle radiali storiche a scavalco della cerchia dei navigli, con l’innalzamento degli stessi di qualche metro e il difficile inserimento delle rampe di salita e discesa, con pendenze accessibili ai mezzi pubblici, nel difficile contesto storico urbano. Ma soprattutto per evitare il problema delle conche: che non è tanto un problema di costi e di fattibilità, quanto di impraticabilità reale in assoluto.

I ritmi del passaggio di una conca da parte di un barcone carico di sabbia o di marmo di Candoglia erano i ritmi dei carri trainati da buoi, e ancor oggi non sono mutati. Me ne sono convinto qualche anno fa, passando da Fort William, la località scozzese della sponda atlantica, interna a un profondo fiordo diagonale, dalla quale parte il Caledonian Canal, il lungo canale che, sempre proseguendo la medesima diagonale, taglia le Highlands scozzesi, collega tra loro tre laghi, tra i quali il Loch Ness, e sfocia a Inverness, nel Mare del Nord.

Ebbene, a pochi chilometri da Fort William il Caledonian Canal supera un dislivello di una ventina di metri con otto chiuse in serie ravvicinata, a formare la pittoresca Neptune’s Staircase (Scalinata di Nettuno). È sufficiente starsene per un po’ a osservare i lentissimi tempi di attesa e di passaggio delle barche da una chiusa alla successiva (cosa che nel contesto e nel bellissimo paesaggio del fiordo non fa problema; gli occupanti delle barche nell’attesa fanno colazione, chiacchierano, pescano, oppure scendono a far giocare i bambini sul prato, o a bere qualcosa a un chioschetto bar, lasciando solo qualcuno al timone), per capire che davvero questi ritmi, questi tempi lunghi e rilassati sarebbero improponibili per un servizio pubblico di vaporetti in un contesto urbano come quello milanese.

Mi accontenterei della navigabilità dei navigli esterni, che già qualche problema lo pone: perché ad esempio con il declassamento del Naviglio Pavese a canale irriguo sono stati autorizzati ponti a raso (cioè con l’intradosso a pochi centimetri dal pelo d’acqua), ponti che dovrebbero tutti essere smantellati e rifatti con franco altezza utile, rampe di accesso ecc.

Ma quel che più mi preme sottolineare è che mentre noi stiamo a sfogliare il libro dei sogni ci passano sotto il naso, senza quasi che possiamo accorgercene, gli unici progetti reali che attengono alla “Milano città d’acque” e che sono quelli della Darsena e della “via d’acqua darsena – Expo”.

Della prima hanno già parlato Gardella e Beltrame, con toni preoccupati che condivido; della seconda si conosce pochissimo ed è lecito avere il dubbio che si possa trattare di un progetto molto ingegneristico e assai poco paesaggistico; mi chiedo soprattutto perché, in alternativa almeno parziale al nuovo manufatto artificiale, non sia stata considerata, soprattutto per le aree del Boscoincittà e del Parco delle Cave, la proposta degli amici del Centro per la Forestazione Urbana di Italia Nostra (che di quella zona hanno conoscenza capillare e approfondita) di riattivare il reticolo idrografico superficiale esistente e semiabbandonato, autentica importante testimonianza della “Milano città d’acque” di cui il nord ovest milanese è particolarmente ricco e che meriterebbe di essere valorizzato, anche in chiave Expo.

Un’ultima considerazione. Se dovessi indicare qual è secondo me la priorità assoluta, sempre nell’ambito del tema affascinante della “Milano città d’acque”, non avrei alcun dubbio: indicherei il recupero del Lambro, il fiume di Milano, fino a oggi negletto, saccheggiato, devastato (anche dalla tangenziale est e dal “peduncolo”) e infine abbandonato, e tuttavia ancora passibile di recupero, ricco di potenzialità ambientali e paesaggistiche, che lo possono portare al ruolo di più importante corridoio ecologico urbano di Milano, e anche di linea dorsale est del sistema ciclopedonale urbano, aperta al sistema sovraccomunale, verso il Parco di Monza, verso l’Adda attraverso la Martesana, verso le Groane attraverso il corridoio del Villoresi, verso il Parco Sud.

Il Lambro nasce nel triangolo lariano; quando entra nel lago di Pusiano è già in area protetta (Parco regionale della Valle del Lambro, e poi Parco di Monza storico, che ne è la parte meridionale); attraversato il centro di Monza entra presto (ma potrebbe entrarvi ancor prima, se il comune di Monza si decidesse a proteggere la bellissima area della Cascinazza) nel PLIS (Parco Locale d’Interesse Sovraccomunale) della Media Valle Lambro, che tra poco porterà i propri confini fino allo svincolo di cascina Gobba, cioè all’interno dell’area urbana milanese (grazie alla nuova amministrazione e all’Assessore De Cesaris, che hanno deciso, variando il PGT in accoglimento di alcune osservazioni, di far entrare Milano, appunto, nel PLIS MVL, con una sua consistente dote di aree).

A sud della Gobba, il Lambro presenta il tratto urbano più difficile, ma anche ricco di episodi positivi (il Parco Lambro milanese, le aree verdi del Rubattino, il Parco Forlanini, il Parco di Monluè), per i quali sono necessari soprattutto uno sforzo di ricucitura, per ritrovare continuità ecologica e funzionale lungo la dorsale, e ancor più uno sforzo di manutenzione e gestione unitaria e omogenea; tenendo conto che Forlanini e Monluè sono già in area Parco Sud, e quindi già in area protetta e per natura sua interconnessa col sistema del verde del sud Milano e con le vaste aree agricole della “bassa” milanese e padana.

Come si vede, gli strumenti e le condizioni per operare ci sarebbero. Lo confesso, c’è evidentemente un fatto personale: non solo e non tanto perché ho lavorato a lungo e con entusiasmo al progetto del PLIS Media Valle Lambro, ma soprattutto perché il Lambro mi richiama la mia esperienza al Parco Nord: anche là, quand’ho cominciato, c’erano solo aree marginali e degradate di periferia metropolitana, diventate oggi aree pregiate, diventate una nuova centralità metropolitana. Anche per il Lambro, ce la si può fare, e il gioco vale certamente la candela.

 

Francesco Borella



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