31 gennaio 2012

GIORGIO BOCCA DALLE PAROLE AI FATTI


Per Giorgio Bocca, l’uso della parola sobria e incisiva faceva parte di quel suo carattere brusco e poco retorico che metteva in tutte le cose e corrispondeva all’altra dote, certamente naturale, ma affinata dal mestiere di giornalista di cogliere il particolare significativo di una situazione e riportarlo pi nel racconto spesso con bonaria ironia. Da vecchio compagno di liceo di Silvia Giacomoni avevo frequentato sporadicamente casa Bocca finché il giorno dopo l’assassinio del giudice Alessandrini ho accettato la proposta di andare con lui a Courmayeur per toglierci entrambi da un ambiente mefitico. Scappare con il Bocca in montagna, andando a sciare a Courmayeur, per sfuggire alle BR sembrava una parodia di tempi più seri ma c’era davvero poco da scherzare.

Lui era stato minacciato direttamente e ripetutamente per i reportages sui terroristi in carcere e prendeva queste minacce maledettamente sul serio. Io mi ero svegliato una mattina trovando in prima pagina del Corriere il pezzo scritto da me, di un documento che gli assassini avevano lasciato nella loro rivendicazione sul petto dell’ammazzato. Non c’era il mio nome ma era lecito pensare che chi aveva messo le mani sul documento non avesse difficoltà a risalire all’autore: in quel periodo facevo parte con Alessandrini di un gruppo ristretto presso il CNPDS Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale e poco tempo prima avevamo preparato il documento finito poi nelle mani di Prima Linea e ampiamente ritagliato per il documento di rivendicazione finito poi sul Corriere, soprattutto nella parte in cui io avevo tracciato le linee di una banca dati sugli atti di terrorismo che rendeva ancora più esplicito il mio coinvolgimento in quel gruppo.

Allora non potevamo sapere come il documento fosse arrivato nelle mani dei terroristi e ogni illazione era plausibile: mi ricordo bene che era una sera freddissima dei giorni della merla del 1979 e proprio da casa di Giorgio Bocca ho avuto un rovente scambio telefonico con Tobagi al Corriere, cui rimproveravo di non essere stato abbastanza cauto nel proteggere gli autori del documento. Ovviamente avevo torto, ma mi sentivo il dito puntato addosso e quella sera decidemmo appunto di toglierci dai piedi. Io non ero mai stato a sciare a Courmayeur, Bocca abitava ancora vicino al paese in un condominio dalle parti di Entréves, mi pare e al piano sopra c’era l’appartamento di Franco Momigliano. In quel periodo insegnavo a Torino e per molti anni sono ritornato a Courmayeur in ogni stagione spesso ospite di Bocca nella sua nuova casa bellissima alta sul lato soleggiato della valle.

Con lui e la figlia Nicoletta o qualche altre ospite occasionale credo di aver fatto le più belle sciate della mia vita. Ma Giorgio con il suo occhio fotografico non te ne perdonava una: mi ricordo che una volta scendendo da un panettone a la Thuile, come al solito ghiacciato come un freezer, sono scivolato negli ultimi metri finendo quasi sulle punte degli sci di Giorgio e così per sdrammatizzare ho commentato il tempo, meritandomi la sera a cena una recita buffa della mia caduta e del mio voler far finta di niente con quelle risatine che erano la sua specialità. Mi sono vendicato pochi giorni dopo perché alla fine di una bella risalita con gli sci da fondo io, che allora ero in piena forma con il jogging, gli ho dato qualche metro di distacco e siccome eravamo in pieno sole ed io avevo uno di quegli indistruttibili golf di lana fatti a mano dalle vecchie signore di Bergen per Husfliden, la sera Bocca mi prendeva in giro raffigurandomi come il dio Odino che emergeva dalle nevi per dargli la baia.

Non c’era modo di sfuggire al suo occhio fotografico e alle risatine con cui smascherava quello che pensavi senza dire. Negli ultimi tempi la sua tagliente scanzonatura si era tinta di una sorta di disperazione a volte troppo tetra, non era il solo a soffrire di pelle per l’infinita infingardaggine che ha avvolto il nostro discorso pubblico ma le offese al buon gusto e alla decenza da buon piemontese lo ferivano in modo particolare.

L’ultimo articolo di Giorgio Bocca, pubblicato postumo, contiene una critica durissima all’uso smodato del linguaggio in anticipazione di un libro sul tema. “La mia generazione, scrive Bocca, ha pensato di fare buona informazione, buona cultura, con la buona cronaca, onesto racconto della realtà con il mero realismo; siamo stati superati, sommersi dallo tsunami pubblicitario, dal realismo del venduto e dell’acquistato, dal trionfo del paramercato” (“La lingua perduta così le nostre parole sono diventate di plastica“, La Repubblica, 10/01/12 p. 51). È un tema di cui molti dei grandi scrittori e letterati italiani si sono occupati più volte, anche in virtù della circostanza che in Italia esistono ancora e sempre forti tracce di una sorta di dualismo linguistico, quello delle classi colte (10% della popolazione molto approssimativamente) e quello della “plebe” (“parla come mangi”) che la diffusione della cultura di massa non ha colmato, ma anzi forse ulteriormente complicato.

Vedi Raffaele Simone “Tra le disinfestazioni di cui il Paese ha bisogno in quest’intervallo post-berlusconiano ce n’è una immateriale ma non per questo meno urgente. Si tratta di bonificare a fondo il linguaggio che le persone pubbliche usano per rivolgersi ai cittadini e per parlare tra loro” (“Il linguaggio da bonificare“, La Repubblica, 7/12/2011 p. 47). Io penso che le parole siano una eredità che ci viene trasmessa, una eredità che a volte contiene tesori nascosti che è più che giusto esplorare, ma con il rispetto che si deve a un dono prezioso.

Distorcere le parole per ottenere effetti effimeri mi sempre sembrato uno dei trucchi più banali e d’avanspettacolo del mestiere di scrivere. Purtroppo in questo periodo, in cui i cosiddetti comunicatori pubblici, o come li volete chiamare, si dedicano sistematicamente al manierismo alessandrino, mescolando suono, parola e immagine, quello che io (ma non solo) ritengo un pessimo vizio, viene perseguito con spensierata grullaggine.

Prendiamo la campagna di rinnovo degli abbonamenti RAI 2012, in cui volendo pasticciare con le parole, qualcuno ha avuto l’alzata di genio di definire il canone della RAI un “tributo”, ma poi, sospettando che forse c’era qualche problemino (in un paese in cui non solo l’evasione è universale, ma in cui anche lo sciopero dei pagamenti alla collettività è visto come un qualsiasi altro diritto) ha pensato di rimediare giocando con l’idea plasti-buonista che pagare il canone è “un tributo al lavoro di chi in RAI lavora”. Rallegramenti: per 8 su 10 degli italiani “tributo” significa “la (polizia) tributaria” e non credo che ci sia modo più efficace in questo paese per scoraggiare, piuttosto che incoraggiare, una pubblica contribuzione di quello di assimilarla a una imposta: in particolare, il canone RAI è la contribuzione pubblica più evasa in percentuale sull’incassato di ogni altra in Italia, 37,5% (La Repubblica, 19/01/2012, p. 9).

Per di più è, tecnicamente parlando un brutto svarione, il canone RAI non è un tributo, ma una tariffa, cioè un esborso per acquistare un servizio, come il biglietto del treno, dell’aereo o il pedaggio di una autostrada. Costantino Bresciani Turroni, uno dei padri della moderna scienza delle finanze e limpido antifascista, insegnava che “la tariffa è la culla dell’imposta”, ma non una imposta. Un caso esemplare, ma ahimè modale, in cui l’ignoranza e lo scarso rispetto per le parole, si mescola alla supponente pretesa di manipolarle a piacere.

Ma siamo nel pieno di una onda di moralismo verbale: in questa nuova temperie politica, passata la parola d’ordine che occorre far la guerra all’evasore, alcuni si sono convinti che un’arma efficace di questa guerra fosse quella di raffigurare questo evasore come l’odiato ROM, con la faccia del mendicante roma che si incontra all’angolo della strada, assimilandolo anche, con un tocco incredibilmente greve di razzismo, a uno o più dei vermi orribili che abitano nel nostro intestino. Così della intera campagna rimane soprattutto impresso che il roma è simile all’orrido Ancylostoma Canina, mentre l’evasore esce di scena (1). La stessa agenzia ha cercato di infondere negli italiani il concetto che il paese in cui si pagano le tasse è un felice paesaggio per bambini con idilliaci giardinetti da “Corrierino dei piccoli” affissi in tutti i luoghi pubblici… Sfortunatamente, questa campagna, puerile oltre che puerilizzante, ha coinciso con una delle maggiori ondate di esportazione di capitali all’estero della storia recente. Io non so se le agenzie statali che investono milioni dei nostri soldi in questo tipo di campagne pretendano poi di avere qualche prova dell’efficacia della campagna, sarei veramente curioso di sapere (con evidenza fattuale) quanti evasori sia riuscita a convincere la campagna di Saatchi & Saatchi contro l’evasione e se, almeno, si siano recuperati i soldi spesi.

 

Guido Martinotti

 

(1) Sulla Rete si è giustamente scatenata una protesta, con un migliaio di video che ridicolizzano lo spot della grande agenzia internazionale, non di rado molto più divertenti ed efficaci dello spot originario.



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