24 gennaio 2012
Intervengo nel dibattito sul progetto dell’area Ex Enel di fronte al Cimitero Monumentale con imbarazzo e ritardo, entrambi comprensibili dato il mio ruolo di architetto attivo in questa città e collega del progettista dell’intervento nell’università e nella professione. Mi spiace quindi dover ammettere che concordo con Gianni Biondillo, Marco Belpoliti, Luca Molinari e molti altri intervenuti sul tema (vedi www.ordinearchitetti.mi.it): al di là del suo programma funzionale e degli ovvi vantaggi della riqualificazione, il progetto per l’area Ex Enel è piuttosto mediocre sia dal punto di vista architettonico che da quello urbano, ed è per certi versi un’occasione mancata per la città in un’area molto importante.
Come ogni affermazione apodittica, anche la mia si presta a un’interminabile serie di repliche (o ripicche). Il punto però è un altro: se quello di Biondillo, di Belpoliti e di Molinari era un giudizio di natura culturale – non vorrei usare il termine “estetico” per il suo carattere oggi del tutto soggettivo -, le difese dell’assessore Ada Lucia De Cesaris e del sindaco Giuliano Pisapia si sono necessariamente (e giustamente) limitate a due constatazioni: la correttezza della procedura e il consenso politico sul progetto.
Il giudizio qualitativo su di un romanzo, un disco, un film, un quadro è nelle responsabilità di un critico. Al pubblico rimane la scelta di essere o meno d’accordo con esso, ma anche quella di fruire o meno dell’opera: la sorte di un’opera mancata può sempre essere quella delle bancarelle o dell’oblio. Purtroppo però l’architettura è piantata per terra e la città – come diceva Gio Ponti – “consta” delle sue architetture; quindi ogni architettura è un fatto pubblico, e l’assicurazione sulla correttezza del suo processo o sulla sua audience non dice ancora niente sulla sua qualità, che “rimane per molto tempo dopo che il prezzo è stato dimenticato”.
Le connivenze tra politica e affari degli anni ottanta non hanno lasciato solo degrado morale e costo sociale, ormai forse dimenticati: hanno lasciato soprattutto una serie di edifici sbagliati per collocazione, qualità architettonica, efficienza energetica e durabilità materiale, e il grande “scheletro” di Ponte Lambro citato da Giuliano Pisapia ne è un monito di cemento.
Resta il problema di come assicurare oggi a Milano quella qualità del paesaggio urbano e ambientale che le città d’Europa hanno in vario grado integrato nel processo di sviluppo e trasformazione. Nessuna procedura, nessuna commissione, nessuna certificazione può prescriverne l’esistenza. Né questa è per forza assicurata dal chiamare un’archistar, che spesso il committente vede solo come strumento di generazione automatica del consenso. Esistono oggi in Italia e all’estero innumerevoli piccoli e giovani studi “valorosi e coltissimi” (uso sempre parole di Gio Ponti) che saprebbero donare alla città nuove architetture accoglienti e piene di sensibilità nei confronti del loro contesto.
Se le procedure possono limitare i danni, la qualità vera, quella che rimane nel tempo e fa splendida una città, è solo un fatto culturale, e non può essere ottenuta che con l’impegno, con il dibattito e con la “moral suasion“. Speriamo nella prossima occasione, non ce ne sono poi più così tante nella città consolidata.
Cino Zucchi