17 gennaio 2012

ABOLIRE LA REGIONE: I RISPARMI DELLA POLITICA


Sono stato tra i primi studenti di Legge a dare con reale entusiasmo l’esame di Diritto delle Regioni alla facoltà di Legge, sono amico e ammiratore del vero fondatore della Regione Lombardia, Piero Bassetti, sono figlio di un consigliere e assessore regionale che ha passato più tempo della sua vita in Consiglio che a casa in famiglia, perfino l’esercizio del mio primo diritto voto, grazie alla legge sul voto ai diciottenni, è stato per il Consiglio regionale lombardo.

Con questi “precedenti” e profonde radici culturali e personali non avrei mai pensato di dover pensare e scrivere che la Regione Lombardia è un ente inutile che sta diventando dannoso e va abolito! Eppure è quello che ho pensato quando nei giorni scorsi ho verificato di persona come non esista più alcuna traccia della pulsione ideale che l’ha pervasa per tanto tempo, animata da una volontà di cambiamento istituzionale indispensabile per ottenere un proprio spazio ma soprattutto per dare risposte ai cittadini che cominciavano a pensare che il governo di Roma era ormai distante dai problemi concreti: il decreto “Salva Italia” del governo Monti toglie con due righe una competenza legislativa fondamentale in materia di commercio alla Regione con un’ispirazione centralista che più centralista non si può, politici e funzionari regionali di maggioranza (come noto non esistono funzionari di “minoranza” dopo venti anni di governo del Celeste Formigoni …) sono assolutamente d’accordo sul principio ma per ragioni di opportunità “tattica” (forse l’orizzonte Celeste si staglierà su altri panorami meno “padani” a breve) fanno finta di niente e dicono ai Comuni di andare pure avanti loro con iniziative e proposte.Ma come ? La Regione più federalista, più moderna etc etc, per di più governata da forze tanto federaliste da sembrare secessioniste si fa liquidare in due parole dalla parte burocratica e dei grand commis romani del Governo Monti?

Sarà stata la coincidenza con l’ennesimo anello della lunga catena di scandali e arresti al vertice della piramide del potere regionale o con le ennesime scandalose nomine ai vertici degli istituti di ricerca della sanità, dove il criterio di scelta per “rinnovare” il CDA pare sia stato “non più di due avvisi di garanzia e una condanna per reati contro la PA a testa”, ma uscendo dal grattacielo “Furmigun” mi ha folgorato il concetto che il vero tappo all’efficienza, efficacia e autonomia del governo del territorio stia proprio là, più che non tra le quasi abbandonate rovine istituzionali della Provincia, ormai in attesa solo del fatto che qualcuno si ricordi di spegnere la luce.

Partiamo dal “core business” della Regione (e dei suoi “amici”, ma di questo parlano altri più informati di me), la sanità, di cui si vanta l'”eccellenza” anche in tempi non propriamente opportuni come nei giorni da finale nibelungico del S. Raffaele di don Verzè. Si vanta come conquista un “primato nazionale” che non è stato affatto conquistato negli ultimi anni, ma che è un fatto e un punto di partenza storico che si tende a dimenticare: negli anni sessanta e settanta si veniva da tutta Italia per farsi curare a Milano ancora più di adesso e l’Ospedale di Niguarda o il Policlinico erano già allora tra i più importanti centri medici d’Europa e del mondo. Il famoso “modello lombardo” pubblico-privato ha permesso la nascita di effettive “eccellenze” come l’Humanitas o lo IEO negli ultimi trenta anni, ma non è che lo sviluppo dell’Istituto dei Tumori negli anni sessanta sotto l’ombrello pubblico sia stato un caso isolato.

Per contro, a fronte di un’autentica esplosione della spesa sanitaria si è sviluppato un settore privato che ne ha beneficiato quasi per intero, forse non così ben guidato e ancora meno ben controllato se si sono potuti verificare il gravissimo caso della Clinica Santa Rita e il default da più di 1,3 miliardi di euro del San Raffaele, accanto ad un deperimento lento ma continuo della sanità pubblica. Una previsione realistica indica che, qualora non si verificassero sostanziali cambiamenti nella gestione attuale dei grandi gruppi privati nati e cresciuti in Lombardia in questi ultimi dieci anni, entro un paio di anni al massimo l’intero settore della sanità privata sarà interamente controllato dalle banche e dalla finanza, schiacciato da un debito che cresce in maniera superiore ai ricavi.

Un sostanziale fallimento sulla materia che rappresenta ormai l’80% del proprio bilancio e attività, unito ai problemi che solo eufemisticamente possiamo definire di “malgoverno”, sarebbe motivo più che sufficiente per dichiarare seppure a malincuore fallito l’intero esperimento regionale. Purtroppo non finisce qui, poiché il bilancio poco lusinghiero si estende anche, per esempio, alla politica economica che la Lombardia (non) ha fatto: negli anni di vacche grasse ha moltiplicato le società e i Cda con relativi consulenti e dipendenti più che gli interventi, che sono stati i tradizionali contributi a pioggia, o meglio “ad acquazzone” sulle città e le categorie di riferimento dei diversi assessori, mentre a fronte della crisi incipiente la Regione si è trovata priva di mezzi, oltre che d’idee, anche solo per pensare di avviare una politica anticiclica propria.

La Regione di Formigoni si è cimentata con grande burbanza sul tema delle infrastrutture, creando un reticolo robusto di società e partecipazioni che, ruotando intorno a Infrastrutture Lombarde Spa, ha cercato di ritagliarsi un suo spazio sulla mappa dei sogni che Berlusconi anni fa presentò nella sede istituzionale di “Porta a porta”, la trasmissione di Bruno Vespa. Purtroppo l’ha fatto privilegiando le infrastrutture automobilistiche, lanciando un piano faraonico di opere stradali, dalla BreBeMi alla Pedemontana, spesso con l’accordo dell’opposizione vittima della sindrome di Stoccolma e del fascino delle tangenziali dove spesso sono spuntate autentiche aberrazioni come le autostrade della Bassa o le Tangenziali nel Parco Sud: un approccio che dire tardo anni sessanta è dargli una patente di eccessiva modernità. Nello stesso tempo si è lasciato lentamente ma sicuramente sprofondare la rete delle Ferrovie Nord, la cui velocità media è pressoché uguale a un secolo fa, quando i nostri preveggenti antenati realizzarono quest’opera che avrebbe potuto costituire, se opportunamente sviluppata, la spina dorsale dei trasporti dell’Area metropolitana.

La Regione ha poi puntato forte, pretendendone guida e controllo – approfittando anche della scarsa visione dei sindaci di centrodestra di Milano – su due grandi progetti, la Fiera di Rho e la Malpensa. Dopo molti proclami, grandi investimenti e il solito ininterrotto flusso di assunzioni tendenzialmente di persone riconoscibili dal colore del proprio… animo politico, entrambe si trovano in acque non brillanti, con la necessità di cercare di adattarsi a uno scenario non previsto più per cattiva pianificazione e gestione politica che per destino cinico e baro. La Fiera di Rho troppo grande e con costi di gestione troppo elevati per competere in un mercato sconvolto dall’irrompere di nuove tecnologie di comunicazione e promozione, ha cercato una via di uscita tra terreni e immobili, vicenda Expo inclusa, spesso cacciandosi in guai peggiori di quelli lasciati (qualcuno ci racconta quanto è costato e che utilizzo ha avuto ed ha il bel palazzo di dieci piani vuoti che si trova all’ingresso del quartiere fieristico ?); la Grande Malpensa, oggetto del desiderio spesso soddisfatto della Lega di Bossi e Maroni allora uniti, tra le esitazioni su Linate e l’avvento dei famosi “capitani coraggiosi” del… decreto “salva Alitalia”, cerca di salvare la propria ragion d’essere reinventandosi costantemente una missione. Per essere due eccellenze etc etc progettate a tavolino che hanno impegnato miliardi di euro non è esattamente una storia di successo.

Ma la sindrome dell’immobiliarista ha fatto altri danni: la Regione Lombardia, unica Regione in Italia e probabilmente in Europa (non sono sicuro di questo, forse in Romania, Slovacchia e Polonia è avvenuto qualcosa di simile …) ha effettuato quasi 300 milioni di euro d’investimento per costruirsi una propria sede, possedendone già una come il Pirellone ristrutturato appena prima spendendo cifre comparabili (oggi messo a reddito per ospitare delegazioni, come se a Milano mancassero le sedi di rappresentanza), per sopramercato cancellando un bosco donato da una milanese a condizione che restasse giardino e senza realizzare nemmeno un’operazione urbanistica di delocalizzazione tipo Défense a Parigi.

La stagione delle rivendicazioni “federaliste”, in realtà caratterizzata da roboanti proclami e sostanziale accondiscendenza alle scelte del governo omogeneo politicamente, si è chiusa definitivamente e il pesante e strapagato apparato, dai consiglieri regionali alla Giunta alla struttura dei direttori guidata da un megadirettore, ha rapidamente chiuso la stagione dell’innovazione per entrare in quella, ben più lunga e strettamente presidiata, dell’autoconservazione.

Di là dalle valutazioni politiche è difficile sostenere che, quanta e più anni dopo la sua istituzione, l’ente Regione abbia dato i risultati attesi e sperati. In un’epoca di necessario ripensamento dell’architettura istituzionale forse dobbiamo ricordarci che l’Italia è il paese dei campanili e che le regioni, macro o micro, sono una sovrastruttura istituzionale aggiunta ed estranea alla tradizione.

Legittimo tentativo ma tentativo fallito: prendiamone atto. Con tanti rimpianti, ma con necessario realismo

Franco D’Alfonso



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