17 gennaio 2012

MILANO CITTÀ TAMBURO O FISARMONICA?


“Milano è una città piccola dimensionalmente, molto compatta, in cui i quartieri costituiscono un unico corpo e anima…”. Questo passaggio dell’assessore Boeri (Forum delle politiche sociali, dicembre 2011) merita qualche commento. Perché il concetto è sicuramente vero se consideriamo lo stato degli immobili: la fotografia statica della città rilascia infatti un’immagine di compattezza e densità, destinata peraltro ad accrescersi non poco se il PGT ereditato non sarà decisamente reimpostato e corretto. Se tuttavia consideriamo i “mobili”, comprendendo tra essi la vasta categoria dei bipedi umani, esso rischia di apparire limitato e forse fuorviante.

Sotto questo profilo infatti la città presenta una doppia configurazione. Quella diurna che quasi raddoppia gli abitanti richiamando una ingente massa di “utilizzatori”, che in realtà sono in gran parte lavoratori, operatori e consumatori; e quella notturna assai più ridotta dei residenti anagrafici (poi c’è il fenomeno della “movida” ove i fattori si invertono ma il prodotto non cambia). Questo ansito quotidiano, che respira attraverso regolare mobilità e pendolarismo, da un lato rappresenta una ricchezza, che genera scambio e partecipazione da parte di una quota di popolazione mediamente più giovane e attiva; dall’altro provoca i noti ed endemici guai: congestione del traffico, affollamento dei mezzi pubblici, inquinamento acustico e atmosferico, rifiuti liquidi e solidi.

Milano può dunque essere considerata, sotto l’aspetto sociale economico culturale, una fisarmonica che apre e chiude il mantice con cadenza ritmica, producendo un suono gradevole se opportunamente arpeggiata, stonato se maneggiata da un musicante inesperto o principiante. Altra cosa è invece il sistema politico-istituzionale, ingessato da decenni di mancata riforma e rifiuto ad adeguarsi alla realtà effettuale. Esso assomiglia piuttosto al tamburo principale della banda, che comanda (comanda?) “cinqucencinquanta pifferi”, o quanti sono i comuni dell’area metropolitana. L’interrogativo è d’obbligo perché, come nella prova d’orchestra felliniana, la pletora dei comuni e l’impotenza delle province provoca dissonanze e discordanze laddove (politiche del territorio, dislocazione di infrastrutture fondamentali, misure anti-inquinamento, ecc.) il semplice buon senso imporrebbe coerenza e coordinamento.

Così come nello strumento citato il movimento del mantice collega la melodia della tastiera con l’armonia della bottoniera e, contemporaneamente, scandisce il ritmo musicale, così nella città metropolitana reale il movimento pendolare collega le attività e vitalità umane con le strutture sociali ed economiche, battendo il tempo di uno sviluppo che lo spartito può indicare come allegro vivace piuttosto che andante o adagio (ma più sotto il metronomo purtroppo segna anche “grave”). Analogamente politica e amministrazione pubblica non possono più evitare di allargare lo sguardo su un’estensione più ampia e mettere le mani sull’intera dinamica metropolitana. Altrimenti il capobanda “compagn d’on sciur el ghe dà dent al so tambur” ma sebbene che quando passa “i tosanet diventan timide” lui confonde “el Rigolet con la Semiramide”.

A loro volta i comuni esterni devono saper conciliare gli ambiti di legittima autonomia con le poche ma fondamentali funzioni che non sono governabili a livello strettamente locale e per le quali, nel loro stesso interesse, diventa più appropriata una “cessione di sovranità” in favore di un’armonica azione corale. Viceversa sarebbe bene spacchettare i quartieri della città “compatta” in vere municipalità, competenti ciascuna per il proprio peculiare strumento. La prospettata rottamazione delle province – tra le quali alcune, come Monza, ancora in rodaggio – a opera del governo “d’emergenza” fornisce per altro l’occasione irrinunciabile per un rigoroso riordino del sistema delle autonomie, a suo tempo vanamente tentato dai governi Prodi uno (ministro Bassanini) e Prodi due (ministro Lanzillotta) ma regolarmente bloccato dai governi a partecipazione leghista, determinanti nell’inseguire un’improbabile, perché sbagliata e capovolta, falsariga “federalista”.

In conclusione sarebbe ora, insomma, che la politica provi a riconciliarsi, oltre che con la ragione l’etica e il buon senso, anche con la musica (fare la cosa giusta al momento giusto, come per ogni nota e ogni pausa iscritte sul pentagramma) al fine di evitarci ulteriori stecche e un futuro di indistinti rumori.

Valentino Ballabio

 



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