29 novembre 2011

LA RIVOLUZIONE LIBERALE DI MARIO MONTI


Non so quanti abbiano davvero letto il discorso di Mario Monti al Senato. Personalmente lo consiglio a tutti, specie a sinistra. Ben lontano dal limitare i propri compiti al tempo emergenziale di alcuni mesi, il neo Presidente traccia a grandi linee una visione complessiva della Riforma della Repubblica, fondandola su principi liberali ben fermi, sia pur temperati da contrappesi solidali.

Quando dice “Ciò che si prefiggiamo di fare è impostare il lavoro, mettere a punto gli strumenti che permettano ai Governi che ci succederanno di proseguire un processo di cambiamento duraturo” non delinea il profilo di un governo a tempo, ma le coordinate di un’architettura talmente solida da potersi reggere anche dopo di lui e quasi perfino contro la volontà di chi gli succederà. Altro che governo tecnocratico ed emergenziale, qui c’è la “pretesa” di una riforma del paese che s’impone nella sua “oggettiva” necessità: aldilà delle convulsioni della politica partitica, c’è lo scenario di una vera e propria Rivoluzione Liberale, quella che in Italia non c’è mai stata.

Al centro della visione di Monti sta il mercato, come migliore ambiente relazionale in cui garantire, attraverso la competizione onesta, sia la più efficace allocazione delle risorse che il riconoscimento dei meriti e del contributo che ciascuno apporta alla società. Un ambiente che per funzionare va sgombrato dalla rete vischiosa e multiforme degli interessi organizzati, ma che è ben lontano dalla prateria deregolata in cui gli animal spirits possono galoppare sfrenati, travolgendo tutto e tutti. Sembra chiaro a Mario Monti il carattere sociale del mercato, il suo essere frutto di un processo storico culturale che afferma il principio dello scambio eguale contro quello della rapina e della sopraffazione.

Lontano dalla concezione filosofica di matrice anglosassone che vede il mercato quale contesto naturale della condizione umana, Monti sembra intenderlo come “costrutto storico-culturale” di regole, esito di una elaborazione evolutiva di principi, criteri e soprattutto interessi. Quando rivendica polemicamente la sua battaglia contro Microsoft, Monti afferma, con il suo profilo di sacerdote delle regole, anche la loro stretta necessità perché si possa parlar di Mercato. È ben chiaro così che la rivoluzione liberale di Monti dista le mille miglia dall’individualismo proprietario di Silvio Berlusconi, per il quale semplicemente la regola è un ostacolo e la tassa un balzello. Ma è mille miglia lontana anche dalla visione per cui il progresso sociale si fonda sull’equivalenza tra bene comune e proprietà collettiva, sull’espansione dei compiti dello Stato e sul ruolo essenziale delle rappresentanze collettive nella gestione degli interessi sociali.

Per Mario Monti, l’Italia è storicamente vittima della incompiutezza della sua rivoluzione liberale, così come è riconoscibile anche nel grande compromesso sociale del dopoguerra: bassa tassazione e libertà d’evasione per il lavoro autonomo, bassa produttività e inamovibilità del pubblico impiego, robuste tutele al lavoro e rigidità del suo mercato. Presupposto essenziale ed esito di questo compromesso erano la spesa pubblica come prestatrice politica di ultima istanza e un’economia nazionale protetta. La deregulation mondiale ne ha via via scardinato progressivamente la sostenibilità fino ai drammi odierni.

Monti ci dice con chiarezza nel contesto globale che non possiamo più permetterci una società in cui il flusso dei processi economici e l’interazione dei suoi fattori (capitali e persone) sia così fortemente “ostacolato” dai corporativismi e da una Politica che, invece che fissarne le regole, opera in prima persona, distorcendone il funzionamento. Via allora i privilegi della Casta, che usa la cosa pubblica, massimizzando con gli sprechi il suo potere. Via la proprietà pubblica di Beni che per la loro natura, o per l’uso sconsiderato che ne viene fatto, possono e debbono essere dismessi. Via gli pseudo mercati dei servizi professionali e le relative caste (riordino della disciplina delle professioni regolamentate). Via la pretesa delle organizzazioni sindacali di contrattare la mobilità dei lavoratori dipendenti sul mercato del lavoro (modello della flexsicurity). E così via…

Ma se il mercato va da un lato sgombrato da “residui ideologici” e prassi neocorporative, dall’altro lato Monti riconosce che l’illegalità ne limita o addirittura annulla l’efficacia: la libertà accordata agli operatori trova nella sua visione un forte contrappeso nel riconoscimento che la produzione della ricchezza non è mai solo l’esito di uno sforzo individuale ma, anche, del contesto sociale che lo rende possibile, lo premia e lo obbliga. Se per l’individualismo volgare degli ultimi due decenni, le tasse sono semplicemente la mano del diavolo, per Monti sono la certificazione di un chiaro debito sociale e di un imprescindibile obbligo etico.

Sì allora all’imposta sulla casa: “L’esenzione dall’ICI delle abitazioni principali costituisce, sempre nel confronto internazionale, una peculiarità – se non vogliamo chiamarla anomalia – del nostro ordinamento tributario“. Sì, plus ultra di Vincenzo Visco, a “(…) abbassare la soglia per l’uso del contante, favorire un maggior uso della moneta elettronica (…)”. Sì, al passaggio della tassazione dei redditi verso la tassazione dei patrimoni grazie “(…) al monitoraggio della ricchezza accumulata (…)”. E così via…

Non siamo di fronte a misure emergenziali, ma al manifesto liberale del nuovo patto sociale, presentato da Monti a nome dei soggetti che, delusi dal ventennio berlusconiano, cercano le ragioni di una nuova stagione e di una nuova egemonia. Sono i poteri forti? Se per questi intendiamo le grandi tecnocrazie finanziarie, l’alta burocrazia romana (almeno una parte), e lo stesso Vaticano, sì, certamente, ma non solo. Sotto la sua bandiera, cercano riconoscimenti molteplici soggetti, o parti di essi. Tra questi in primis, anche quella stessa borghesia che ha già cambiato la guida di Milano e ora sposta il suo baricentro d’azione sul governo della Nazione.

Sta bene tutto questo alla Sinistra? Condivide la visione? Ne ha una alternativa? La sinistra, come tutto lo schieramento partitico, ma anche le articolazioni degli interessi, è chiamata da Mario Monti e dai suoi sponsor a scelte strategiche, che ne potranno ridefinire anima e posizionamento. Nel PDL come nello stesso PD, il “manifesto montiano” taglia verticalmente culture e insediamenti sociali, fino a prefigurare esiti e rimescolamenti al momento inaspettati: una nuova agenda della sinistra ormai più che un’opzione è uno stato di necessità

I richiami alle regole e all’eticità della tassazione suonano dolci alle orecchie della sinistra, ma a ben veder sono accordi di uno spartito discordante con le antiche armonie che ne hanno accompagnato la storia: nodi secolari attendono di essere sciolti, per non venire tagliati. Nella memoria profonda dei lavoratori sta racchiuso un istinto che lega strettamente la sopravvivenza individuale all’unità organizzata degli interessi collettivi e non appare per nulla agevole pensare che questo schema, elementare ma potentissimo, possa disciogliersi nel quadro di un mercato dove il lavoratore, pur garantito da nuove regole, è più solo di fronte al “padrone. E il movimento mondiale degli Indignados ci dice che il mercato non è solo il luogo in cui prevale la razionalità dello scambio eguale, ma anche il terreno privilegiato della criminale azione di molta parte del capitale finanziario.

Chi potrà fissare le regole e tutelare il diritto al benessere e alla felicità se non i soggetti collettivi, vecchi e nuovi?

 

Giuseppe Ucciero

 



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