29 novembre 2011

URBANISTICA A MILANO. INDICE “UNICO”: PERCHÉ?


Molti dei maggiori problemi ereditati dalla nuova amministrazione nel PGT adottato risalgono a una scelta originaria, a un “peccato di fondo” nell’impostazione del piano che se non sarà risolto continuerà a creare pasticci. Questo errore di fondo si può individuare nell’attribuzione di un indice “unico” alle aree libere e a quelle già edificate da trasformare. Si tratta infatti di fattispecie diverse, come minimo negli aspetti economici: le aree già edificate sono normalmente urbanizzate e hanno valori e costi di trasformazione intrinseci anche a prescindere dalle scelte urbanistiche; le aree libere invece comportano spesso costi aggiuntivi a carico della collettività in termini di nuove urbanizzazioni e il loro valore di trasformazione appare sostanzialmente determinato dalle scelte di piano.

Da qui la radicata tradizione disciplinare di distinguere i casi: volendo recuperare un’area dismessa, per rendere le previsioni fattibili le potenzialità edificatorie dovranno superare i valori attuali e i costi di trasformazione; per un’area inedificata invece la fattibilità può essere raggiunta con carichi insediativi molto minori (nel caso di realtà urbane già molto dense come la nostra) e richiedendo contributi urbanizzativi (in termini di opere pubbliche o aree per servizi) se nel caso molto maggiori. Prevedere invece una medesima disciplina per entrambi i tipi di area finirebbe quasi inevitabilmente per rendere più remunerativo e quindi favorire l’intervento su aree libere, anziché dismesse da recuperare (e non basterebbe la possibilità di recupero della slp esistente a equiparare i casi, perché ci sono impianti fortemente insediati – come fonderie o raffinerie – che valgono poco in termini di slp).

Purtroppo è quello che fa il PGT adottato di Milano e viene da chiedersi: perché?

Da un punto di vista culturale, una possibile origine è nel documento di obiettivi per le politiche urbanistiche approvato dalla Giunta milanese nel 2003, dove appunto si dà una grande enfasi al concetto dell’indice “unico”, ma in una diversa e più nobile accezione, quella cioè di assegnare il medesimo indice a parità di condizioni territoriali, non creando così ingiustizie e disparità nell’azione di piano; ma pur sempre distinguendo fra aree già edificate e non.

Vero è che in quel documento erano presenti alcune affermazioni abbastanza sorprendenti sul ruolo di alcune leggi e sul PRG vigente. In particolare, del DM 1444/68 si diceva addirittura che, “come noto” gli standard urbanistici “sono privi di diritto di edificazione”, mentre questo notoriamente è un portato della cultura disciplinare, nulla prevedendo il DM in proposito: tanto è vero che già nel 1974 alcuni PRG come ad esempio quello di Bresso prevedevano diritti edificatori perequati sulle aree a standard, il tutto in piena conformità al DM – ci sono stati anche ricorsi a dimostrarlo -; ma anche senza andare a questi casi poco noti, i PRG degli anni ’80 di Gregotti e Cagnardi (e di altri) prevedono quasi sempre forme di perequazione e compensazione sulle aree a standard, perfettamente compatibili con il DM. Non è neanche vero che il DM imponga indici differenziati o la discriminazione o “ingiustizie” fra le proprietà, e neanche che il PRG vigente preveda “un evidente sovradimensionamento dei nuovi carichi insediativi” (è vero il contrario, si tratta di diverse modalità di calcolo dei carichi insediativi esistenti, dove tra l’altro le funzioni residenziali non erano rappresentate, pur la giurisprudenza prevedendo diversamente). Ma tant’è: da premesse sbagliate non possono che conseguire conclusioni sbagliate.

Poi ovviamente c’è anche un motivo pratico: avviandosi alla conclusione il recupero di molte aree dismesse milanesi (ne mancano però ancora tante), si ricomincia a guardare alle aree libere. Ma, qualunque ne sia stata l’origine culturale o ideologica, il problema che ci troviamo adesso con il PGT di Milano è che avendo scelto un indice unico su aree dismesse e su aree libere o agricole (Parco Sud escluso beninteso) e dovendo garantire la fattibilità degli interventi sulle prime, con indici quindi non bassi, a indici edificatori “di base” molto elevati ed estesi sul territorio corrispondono inevitabilmente previsioni edificatorie complessive queste sì elevatissime, senza possibilità di sostenerle in termini di “capitale sociale urbano” (come si diceva una volta: infrastrutture, servizi, spazi collettivi, ecc.) e con possibilità di trasferimento molto ridotte (essendo gli indici “di base” essendo molto prossimi a quelli “finali”).

E’ sufficiente ridurre in modo indifferenziato tali indici? Certo questo può servire a ridurre il nuovo carico insediativo complessivo, ma rischia di buttare fuori mercato il recupero delle restanti aree dismesse e incentivare l’intervento su aree libere (soprattutto se non si prevedono indici di densificazione minimi).

E’ ancora tecnicamente fattibile la distinzione fra aree libere ed edificate? Certo che sì, basterebbe accogliere le osservazioni presentate in tale senso, e se la loro individuazione grafica dovesse richiedere troppo tempo, lo si potrebbe fare in un primo momento in via normativa (facendo riferimento ad esempio allo stato di fatto su base catastale) e avviando contestualmente l’individuazione cartografica (che comunque non dovrebbe essere gravosa, corrispondendo in larga misura le aree inedificate allo standard non attuato nel PRG vigente). Insomma forse ce la si può ancora fare.

 

Gregorio Praderio

 



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