22 novembre 2011

LA SAGA BPM O LA LENTA FINE DELLE POPOLARI


C’era una volta una grande banca popolare fortemente radicata nel territorio più ricco e dinamico del paese … Potrebbe essere questo l’incipit scelto da chi tra qualche anno vorrà raccontare le vicende che negli ultimi anni hanno riguardato la Banca Popolare di Milano, e non perché pensiamo che questa sia destinata a scomparire, ma perché le sue ultime vicissitudini (e non intendiamo riferirci alle inchieste penali in corso, che pure hanno messo in luce un deficit di controllo e trasparenza sui vertici aziendali in alcune operazioni chiave degli ultimi anni) paiono indicare che difficilmente essa potrà mantenere a lungo le caratteristiche che l’hanno così fortemente connotata dal 1865, anno della sua fondazione.

Queste sono note: una struttura fortemente ed effettivamente cooperativa, con una importante concentrazione di poteri nelle componenti organizzate dei soci dipendenti ed ex dipendenti, favorita dal voto strettamente capitario; una altrettanto forte centralità del territorio di riferimento nella scelta di allocazione dei fondi raccolti tra la clientela.

Questi due capisaldi sono stati messi progressivamente in crisi dalla crescente concentrazione del settore bancario, ormai caratterizzato anche in Italia da pochi player di rilievo nazionale, quando non europeo, e dalla regolamentazione sovranazionale (leggi UE e Basilea) che impone a tutte le banche le medesime regole e i medesimi ratios patrimoniali, indipendentemente dall’estensione della rete e dalla tipologia prevalente di business svolto; sotto quest’ultimo profilo pare anzi che solo la ferma resistenza del valtellinese Tremonti (conterraneo dei due colossi del settore Creval e Popolare di Sondrio) abbia evitato che Bruxelles negli ultimi anni assumesse decisioni irreversibili in materia.

Aggiungiamo infine che l’influenza dei sindacati, che coagulano attorno a sé le componenti organizzate dei soci-dipendenti, non sempre ha spinto (per usare un eufemismo) in direzione di efficienza e solidità gestionale, come ha riconosciuto da ultimo Raffaele Bonanni. Intervenendo con una lettera al Corriere proprio nella “campagna elettorale” di BPM per chiedere un passo indietro alle sigle egemoni nell’azionariato della banca, il leader Cisl ha affermato condivisibilmente che la realizzazione di una democrazia economica più avanzata, che è un valore in sé, resta ovviamente l’obbiettivo di un grande sindacato, ma che deve essere perseguita senza risolversi in detrimento per la creazione di valore nel lungo periodo, come invece evidenziava a fine ottobre un’impietosa indagine del Sole 24 Ore.

Erano del resto le medesime considerazioni cui era pervenuta da tempo Bankitalia, imponendo una drastica revisione dello statuto, con il passaggio a un modello di gestione duale piuttosto estremo, che prevede non solo una radicale separazione tra proprietà e gestione, ma altresì la totale discontinuità con il passato, vietando la nomina in consiglio di gestione di esponenti che avessero ricoperto analoghe posizioni in passato.

Sarebbe però ingeneroso attribuire oggi a sole lacune di governance di BPM le ragioni di una redditività inferiore a quella dei grandi gruppi di banche commerciali, che è invece comune a tutte le popolari; è il loro modello di business (più sbilanciato sulla componente retail, con minori commissioni da trading e investment banking, con costi di personale e di struttura più alti) a renderle in questa congiuntura meno competitive e a far prevedere una fase di consolidamento del settore nel medio periodo.

Poco importa oggi che delle due contrapposte cordate, guidate l’una dal duo Annunziata-Bonomi, l’altra da Messori-Arpe, abbia prevalso la prima, più continuista. Quello che infatti balzava agli occhi era piuttosto l’analogia della loro composizione, giacché ciascuna delle due prevedeva l’ingresso di un socio di capitale. Oggi che Bonomi siede nel consiglio di gestione di BPM appare francamente ingenuo pensare che rinunci a spingere per un’evoluzione che nel medio periodo gli consenta di far pesare il proprio investimento (che è cresciuto sino al 10% del capitale, e ha fatto nelle ultime settimane da polo aggregante per l’ingresso di altre famiglie storiche del capitalismo milanese) con strumenti più incisivi di quanto sia possibile nella situazione attuale, in cui il suo voto vale quanto quello di qualsiasi altro socio. Del resto, il fatto che il titolo tratti al 30% del patrimonio netto spiega le dinamiche in corso meglio di qualsiasi altra cosa.

Se in questa fase è prematuro esprimere giudizi netti, appare però chiaro che nulla sarà più come prima.

 

Diego Corrado

 



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