11 ottobre 2011

cinema


 

TOMBOY

di Céline Sciamma [Francia, 2011, 84’]

con Zoé Héran, Malonn Lévana, Jeanne Disson, Sophie Cattani, Mathieu Demy

Michael (Zoé Héran) è un ragazzino come tanti. I suoi tratti del volto spigolosi, la capigliatura bionda ribelle gli permettono di avere tutte le carte in regola per farsi rispettare dai nuovi amici di quartiere. Gioca con successo a calcio, prevale nella lotta con i suoi coetanei, riesce perfino a far breccia nel cuore di Lisa, la più ambita della piccola compagnia dei ragazzi. Tomboy, seconda opera cinematografica di Céline Sciamma, appare inizialmente come una classica e ordinaria pellicola sul periodo adolescenziale. Nulla di più inesatto. La regista ci ha mostrato inizialmente lo strato più superficiale per lasciarci esterrefatti di fronte alla scoperta che Michael in realtà é Laure, una bambina di dieci anni.

È un maschiaccio, come suggerisce il titolo inglese, prigioniero nel corpo e in un nome femminile. L’onore e l’esistenza stessa di Michael sono vincolati a un mascheramento quotidiano che non permette imperfezioni o sbavature. Le ore passate davanti allo specchio per cercare l’auto-approvazione prima di giocare a calcio a torso nudo, il furtivo taglio di capelli da parte della sorella piccola ma soprattutto la pasta modellabile prima di un bagno nel fiume ci rivelano l’unicità di questo piccolo personaggio che cerca l’espressione della propria identità sessuale più di ogni altra cosa.

La regista gioca abilmente con le nostre emozioni. Si passa dalla commozione di fronte alla insicurezza di Laure nel dar vita al suo alter ego maschile, all’ilarità davanti alla simulata improvvisazione che rende quasi comica la preparazione della messinscena quotidiana. Tomboy, nella prima parte, dà vita a una favola spontanea e coinvolgente sul senso di libertà che si prova manifestando la propria natura. Nella seconda, ci riporta dolorosamente nel contesto sociale a cui siamo abituati a seguito dell’intervento del mondo adulto. Non c’è nulla di più crudele di uccidere un “maschiaccio” con un vestito da ragazza.

Marco Santarpia

 

In sala a Milano: Apollo, Eliseo

 

 

TUTTI PER UNO

di Romain Goupil [Les mains en l’air, Francia, 2010, 90′]

con: Valeria Bruni Tedeschi, Linda Doudaeva, Jules Ritmanic, Louna Klanit, Louka Masset, Jérémie Yousaf

«Siamo nel regno dell’assurdo», dice Cendrine (Valeria Bruni Tedeschi); il suo sguardo è paralizzato, il suo pensiero allibito mentre osserva la società attorno a lei. Quelli di Cendrine sono gli unici occhi “grandi” attraverso i quali Romain Goupil racconta la storia di Tutti per uno [Les mains en l’air, Francia, 2010, 90′]. Gli altri sono gli occhi dei bambini. Come François Truffaut in Gli anni in tasca [L’argent de poche, 1976], anche Goupil “abbassa” la telecamera ad altezza bambino.

Il risultato è un racconto che diffida dall’interpretazione adulta per abbracciare il mondo genuino dei più piccoli. Una fiaba, quindi, narrata da Milana (Linda Doudaeva) nel 2067, il cui “c’era una volta…” trasporta in un lungo flashback fino alla Francia del 2009. Un paese immerso in un periodo storico caratterizzato dal movimento, dal passaggio delle persone attraverso i confini. L’immigrazione – verso l’Europa – arriva da est e da sud; ma quelli che varcano le frontiere non sono uomini come noi, ma stranieri, barbari dai quali difendersi. Neri, ebrei, zingari: parassiti che infettano la nostra cultura e la nostra terra. Tutto quello che è “nostro” è da proteggere da “loro”.

Accade anche nella scuola di Milana, emigrata a Parigi dalla Cecenia. E la politica, invece di riflettere in maniera laica su una situazione problematica, fomenta l’emozione della paura mettendo in discussione le nostre stesse libertà. Goupil – come Cendrine – è incredulo: «Nel 2007, quando Sarkozy ha cercato di sedurre l’estrema destra, ha decretato questa politica del rimpatrio forzato, anche per le famiglie e i bambini, che ha provocato in me un disgusto totale, un sentimento di rivolta. Ho fatto questo film non per denunciare ma per rinascere, far vedere l’assurdo in cui viviamo. In Italia accade lo stesso: si fa leva sulle paure della popolazione, si cerca di compiacerla con pratiche incivili quando dovremmo essere fieri di accogliere queste persone. Nell’agosto 2010 con il rimpatrio forzato dei Rom abbiamo raggiunto l’apice di questa politica allucinante».

Allora il regista scansa il racconto pubblico alimentato dalla televisione, narrazione semplicistica di un quadro socio-politico complicato, e usa il cinema per trasformare in fiaba una realtà spaventosa. Si stacca dalla miopia diffusa tra i “grandi” e osserva il mondo da quel rifugio in cui Blaise (Jules Ritmanc), Alice (Louna Klanit), Ali (Louka Masset), Claudio (Jeremie Yousafat) e Youssef (Dramane Sarambounou) si nascondono per evitare il rimpatrio forzato di Milana.

C’è un’immagine esemplare in Tutti per uno: questi bambini che, correndo, trovano davanti a loro un muro e – senza difficoltà – lo scavalcano con semplicità. Per loro il confine è labile, sfumato. Le loro parole e i loro simboli esulano dal creare un ordine culturale centrato sull’ansia del differente. La fiaba si conclude con la resa dei piccoli amici che abbandonano il nascondiglio con “le mani in alto” (Les mains en l’air è il titolo originale del film): si arrendono – forse – davanti ai piccoli occhi dei grandi, ma senza perdere l’occasione di dimostrare che i grandi dovrebbero iniziare a guardare il mondo da una prospettiva un po’ più bassa, quella dei grandi occhi dei piccoli.

Paolo Schipani

 

In sala: Anteo Spazio Cinema – Giovedì 13 ottobre – ore 15.30 17.30 20.00 22.00

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Schipani e Marco Santarpia

rubriche@arcipelagomilano.org

 



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