20 settembre 2011

MUSEI: CHI PAGHERÀ IL CONTO?


Recentemente mi dicevano che il bookshop di una delle più importanti istituzioni museali italiane non va bene, mentre la caffetteria ha sempre successo. La cosa non mi ha sorpreso, perché la constato da tempo anche nel museo che dirigo. Aggiungo che i visitatori vanno diminuendo in modo rilevante, a meno di eventi speciali, di particolare forza attrattiva. La società cambia e la crisi fa la sua parte. Da un lato il pubblico (considerato genericamente e non per fasce d’età o socio-culturali) va perdendo interesse per tutto ciò che si radica nei valori tradizionali e soprattutto culturali, dall’altro mostra un crescente interesse per gli aspetti più materiali dell’esistenza, i beni di consumo, le mode, il cosiddetto look e i momenti di convivialità, fra i quali quelli legati al cibo.

Registrando tutto ciò non posso non fare delle considerazioni. Il mondo è cambiato e cambierà ancora. E tutto è avvenuto molto rapidamente. Gli uomini di cultura sono generalmente portati a stigmatizzare questa perdita di valori, piuttosto che credere in modalità diverse di viverli. Non compete a me giudicare tutto ciò. E’ materia del sociologo, e comunque non di un direttore di museo che, però, guarda con apprensione il presente e il futuro delle istituzioni culturali e considera con preoccupazione il venir meno dei contributi pubblici e, ormai, anche il diradarsi di quelli privati. Per noi vuol dire lavorare in modo totalmente diverso e rinunciare giorno dopo giorno a conquistare quegli standard di qualità su cui avevamo lavorato negli anni passati e su cui avremmo voluto misurarci con i musei europei e americani.

Persino l'”evento” a cui ci eravamo arresi negli anni scorsi, sta perdendo capacità attrattiva e con essa quella di reperire i fondi. Ricordo che nel corso della 19° Conferenza Generale dell’ICOM, tenutasi a Barcellona nel luglio 2001, una importante relazione, prefigurando già lo scenario attuale, si concludeva con la domanda cruciale: chi pagherà il conto? Da un lato verrebbe da dire, secondo una lettura morale della domanda, che il conto lo stanno già pagando le nuove generazioni, ma dall’altro la sua sconvolgente attualità suscita una certa ansietà e obbliga a cercare modalità diverse di gestione.

Immaginando che i musei non possano e non debbano chiudere i battenti, né che il patrimonio dei nostri beni storico artistici possa essere messo sul mercato, i costi di un museo, pur modificato secondo le attuali ristrettezze economiche e pur allargato alle nuove istanze culturali (altra cosa da quelle tradizionali, fondate su ricerca – conservazione – valorizzazione ecc.), sono altissimi. Lo Stato nelle sue diverse espressioni non ce la fa? Forse non ha neppure tentato una politica dei Beni Culturali adeguata al Paese. Forse non ha neppure immaginato di ridurre i costi della politica a vantaggio della società e della cultura. E forse non ha capito che siamo indignati di tutto ciò.

La nostra indignazione è forte, ma ancora si manifesta poco. Il tempo ci dirà cosa succederà. Oggi non possiamo che invitare i privati a esercitare una sorta di supplenza. Ma perché ciò avvenga occorrono tre cose: che lo Stato lo consenta, che legiferi in materia di defiscalizzazione e che sia possibile porre questi nuovi soggetti intorno al tavolo delle decisioni, nei Consigli di amministrazione ecc. Solo se potrà decidere e realizzare senza impedimento di sorta, sia pur nel dovuto rispetto delle norme di tutela e controllo, il privato accetterà di lavorare per la salvezza dei nostri Beni Culturali. Le sponsorizzazioni sono finite, ma forse inizia il periodo della collaborazione con quel “privato” che forse si assumerebbe responsabilità nuove, solo se potesse partecipare alla fase decisionale.

 

Paolo Biscottini*

 

*direttore del Museo Diocesano



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