31 maggio 2011

PERCHÉ I PRIMARI IN FUGA DA NIGUARDA?


Ha fatto inizialmente scalpore, per poi essere relegata nel dimenticatoio, la notizia dei 7 primari in fuga da Niguarda, per un totale di 12 posti vacanti su 60 apicali. Nell’elenco dei medici in fuga ci sono nomi noti come Francesco Mauri (Cardiologia), Sergio Vesconi (Anestesia e rianimazione), Roberto Sterzi (Neurologia), Alessandro Marocchi (Laboratorio analisi), Giovanbattista Pinzello (Epatologia), Roberto Cairoli (Ematologia immunologica), Luciana Bevilacqua (Qualità e sicurezza clinica). Nella precedente tornata i primariati rimasti vacanti erano quelli di Reumatologia,Otorino   laringoiatria, Neuroradiologia, un’altra Cardiologia e il Centro antiveleni. Una situazione paradossale, rispetto alla quale, oltretutto, la regione Lombardia consentirebbe il ripristino “solo” del 20% delle figure apicali, per questioni di bilancio. Ma, assicura il Direttore Generale Cannatelli, un fedelissimo di Formigoni, “procederemo a chiedere deroghe per coprire i posti necessari”.

Resta il fatto: perché queste fughe? Solo in un caso si tratta della scelta di lavorare in un altro ospedale. Negli altri si tratterebbe di pensionamento anticipato, usufruendo della prima finestra utile disponibile. D’altra parte va considerato che gli stipendi assegnati ai primari non sono così più vantaggiosi di quelli garantiti agli altri sanitari, e che solo attraverso una cospicua attività libero-professionale è possibile ottenere compensi ragguardevoli. Ma a fronte di stipendi medi non molto stimolanti, la prospettiva di una pensione economicamente di pari livello, senza le beghe e le demotivazioni che oggi lamentano i primari, è così fuor di luogo?

Credo infatti, da medico, di poter fare queste osservazioni:

1) il lavoro di primario si è progressivamente burocratizzato. E’ quasi più il tempo che si deve passare a preparare relazioni, a discutere di budget, a partecipare a riunioni gestionali, che non a occuparsi dell’interesse prevalente di un medico, ossia la diagnosi e la cura del malato.

2) La trasformazione del lavoro clinico in lavoro manageriale rischia di essere esiziale per la qualità dello stare in ospedale: non è un caso che più di un medico e chirurgo abbiano abbandonato il pubblico per il privato (come il professor Vitali, illustre cardiochirurgo passato dal De Gasperis di Niguarda alla Clinica Gavazzeni di Bergamo) non solo e non tanto per ragioni economiche, ma per svolgere una attività prevalentemente clinica, perché, nel privato, la managerialità è affidata alle Direzioni Sanitarie

3) Ma c’è di più: nel pubblico l’autonomia delle figure apicali è andata progressivamente scemando. Troppi lacci e laccioli imposti dalla Regione limitano le scelte di un Primario: non solo per quanto riguarda la selezione dei propri collaboratori, ma nella predisposizione dei budget, nei tetti imposti alle prestazioni, perfino nei tempi medi che devono essere rispettati.

4) Infine la “fidelizzazione” del sistema, diventata ormai insopportabile: non è consentito avere e tanto meno esprimere opinioni troppo discordanti da chi lo dirige. In una Regione e in un ospedale dominati da CL non è facile la sopravvivenza di spiriti “laici”.

Penso sia venuto il momento di ripensare la figura del medico e la sua professionalità, prima che l’esempio niguardese si riproduca a scacchiera negli altri ospedali pubblici. Ma, soprattutto, occorre rivedere, criticamente, il modello lombardo di sanità. Un modello efficiente ma poco efficace, complessivamente costoso, e con un’anima più attenta al mercato che al sociale. Un sistema che ha sostituito al termine ospedale quello di azienda ospedaliera, alla unità soco-sanitaria locale quello di azienda sanitaria, al concetto di utente e di cittadino quello di cliente.

Giuseppe Landonio



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