18 gennaio 2010

CENTRALE BRUTTA E SCOMODA: DUE TRAGEDIE IN UNA


 

È noto come gli architetti italiani siano i migliori restauratori sul mercato internazionale, l’esperienza, le tradizioni culturali, la presenza della Sopraintendenza fanno si che nessuno sia altrettanto bravo a recuperare un intonaco o una superficie marmorea decorata, a ricomporre parti mancanti e in complesso a ridare smalto a paesaggi storici, cosi è strano che in Italia sia molto raro vedere un intervento contemporaneo che ben si sposa con un monumento o un ambiente antico, che sappia essere perfettamente attuale eppure giustamente allacciato e non prevaricante. Insomma uno di quegli interventi che fa piacere guardare e che ci fa sentire bene inseriti in uno spazio dove tradizioni e modernità ci danno un senso di appartenenza continuativo. A questo penso girando senza meta alla stazione centrale di Milano nel giorno tragico e desolato della giornata prenatalizia della nevicata in cui migliaia di persone si accalcavano nella speranza di un treno.

Ma perché mi domando questa trasformazione della stazione mi appare così sgradevole e ostile tanto che ormai preferisco, se posso, prendere il treno da un’altra parte? Sicuramente la scarsa funzionalità è il primo motivo. In precedenza dall’uscita del metrò al binario ci mettevo pochi minuti e adesso ho triplicato il tempo. Della scarsa funzionalità della stazione si è già parlato, ma anche trattando di estetica non si può tralasciare quello che è il nostro criterio fondamentale di bellezza: il buon funzionamento spaziale di un luogo, quella semplicità d’incastro degli ambienti che da un senso di naturalezza. Certo parlare di naturalezza in Centrale sembra assurdo, lo spazio più insolito, gigantesco, artefatto, imponente, ma al contempo fantasioso, signorile, urbano e, come un’antica cattedrale, ricco di dettagli artistici anche nei luoghi nascosti. La sua costruzione aveva richiesto una lunga gestazione, ben due concorsi con un totale di quasi sessanta progetti, in cui il presidente Camillo Boito, il fondatore della scuola italiana di restauro, dopo diverse varianti aveva scelto la soluzione dell’architetto Ulisse Stacchini con cui lavorò una ricca squadra di artisti.

Uno spazio immenso con cui è difficile confrontarsi. Le intenzioni di Trenitalia erano buone con scopi simili a quelli di molte altre stazioni europee che si sono trasformate in luoghi attrattivi dove andare e poter stare assieme anche senza dover prendere il treno. Questo è il secondo punto di critica cioè l’incapacità del nuovo intervento di esprimere senso di accoglienza, di creare luoghi dove sia piacevole stare. Se non si riesce in questo intento è inutile pensare di poter aprire negozi, ristorantini e baretti in luoghi che hanno il calore e l’attrattiva dell’ingresso a un diurno. Ma andiamo per ordine, seguiamo un percorso, scendiamo dalla metro ed entriamo nella vecchia galleria delle carrozze pedonalizzata. E’ deserta, gigantesca e semibuia. Sarà stato anche giusto togliere i taxi ma tutti sappiamo che gli spazi pedonali funzionano solo se ci sono delle attività forti che sostituiscono il traffico se non possono essere l’anticamera del degrado. Questo vuoto fa tristezza e subito si rimpiange il convulso movimento precedente. Anche la vecchia biglietteria è abbastanza vuota, svuotata di significato, se non altro possiamo guardare il soffitto e le belle pareti: ci accorgiamo che sono in travertino, vorrei saperne più, sarebbe bello se ci fosse qualche video che ci fa vedere da vicino queste opere, i materiali e i lavori, sicuramente accurati, di recupero storico.

Bene, infiliamoci nel nuovo atrio da cui partono i grandi tapis roulant per i treni. Tutto diventa marmo avorio, vetro e acciaio con forti luci diffuse. Vetro marmo e acciaio formano ormai un trio buono in tutte le occasioni, ma perché quell’ossessivo colore beige? Beige era anche il travertino ma la patina del tempo gli ha virato il colore, dello stesso marmo avorio sono anche degli inserti dei vecchi mosaici di pavimento delle sale superiori, ma è troppo poco per giustificare una scelta legata alla preesistenza, in realtà quel colore lucido fa a pugni con i toni grigi e sfumati della vecchia stazione. La tonalità calda non è sufficiente a rendere quello spazio differente da tanti ipermercati che circondano le nostre città, dove però progettisti esperti in marketing sono stati più bravi a inserire attività commerciali allegre e differenziate piuttosto che la lunga e terrificante fila di vetrine nel mezzanino, tutte uguali, desolate, che sembrano destinate a non riempirsi mai, nonostante le recenti assicurazioni in senso contrario. La mediocrità stilistica e l’uniformità dei materiali pretenziosi ma banali risalta negativamente in confronto alla passione tardo romantica di un edificio dove chimere e leoni vegliano dall’alto. Non si tratta solo di un eclettismo decorativo ormai desueto, ma anche di opere di alta ingegneria come le enormi strutture a centina reticolare a copertura dei binari, progettate dall’ingegnere delle ferrovie Alberto Fava e montate 1929.

Realizzate tutte per chiodatura a caldo, incernierate al culmine alla base, sono dei capolavori, una vera opere d’arte in ogni singolo pezzo. Siamo arrivati infine al piano dei treni, la confusione morfologica qui è totale, spiccano ai lati soppalchi con scala chiocciola ispirati da quelli di casa in fase di recupero di sottotetto, una sala vip tutta in vetro (ovviamente) come una grande vasca per i pesci rossi e rossi sono i grandi divani completamente vuoti: forse nessuno osa sedersi.

Che dire dunque in sintesi: poco funzionale, poco accogliente, banale. Una trasformazione da manuale di un luogo denso e significativo in un non luogo senza patria e senza storia. Il vecchio Genio che li abitava è scomparso.

 

Giovanna Franco Repellini

 

 

 

 




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