12 aprile 2017

LA CASA E ALTRI DIRITTI: IL CASO DI VIA PADOVA

Una politica collettiva che parta dalle periferie per chi è rimasto indietro


Raccontare una cosa nota in un modo diverso può far emergere aspetti e sfaccettature che non si intuivano. È quello che ha provato a fare SinistraXMilano, in un incontro promosso e organizzato dal suo comitato del Municipio 2, che ha messo intorno a un tavolo interlocutori inusuali e, forse, poco abituati a parlare tra loro: amministratori di stabili, agenti immobiliari e operatori sociali, chiamati a confrontarsi sul tema della casa e dell’abitare in via Padova.

06comelli14FBCon gli amministratori pubblici – assessori e consiglieri – in ascolto e , in chiusura del pomeriggio, chiamati a una riflessione che vuole proporre un modo nuovo di guardare alle periferie, a chi ci abita e a come ci abita. Ne è emerso un quadro tanto cupo quanto reale, che, tuttavia, porta già con sé qualche risposta.

Condomini indebitati, amministratori minacciati, un mercato immobiliare schizofrenico e speculativo, appartamenti finiti all’asta, case dormitorio sovraffollate dove gli inquilini sono spesso vittime e i proprietari non pagano spese e utenze, cornicioni che cadono e ringhiere arrugginite, caseggiati (non tutti, ma sempre di più) dove non ci sono i soldi per la manutenzione ordinaria, figurarsi per quella straordinaria.

È quello che succede in alcuni condomini che si affacciano su via Padova e nelle vie circostanti. Ed è da lì – non dalla mancata integrazione – che nascono molti dei problemi del quartiere.

Dire “casa” in via Padova significa spalancare una finestra su una delle realtà più complesse di Milano e delle periferie metropolitane: “casa” in via Padova non è solo mattone, è anche e soprattutto comunità, che potrebbe essere risorsa del quartiere, ma oggi si frammenta e si impoverisce.

Il sovraffollamento abitativo non è solo degrado fisico e materiale, è prima di tutto degrado umano: è lo sfruttamento di chi non ha voce, perché non ha diritti o non sa di averli, e non ha alternative al non farsi vedere.

Una ricerca, inevitabile, dell’anonimato e dell’invisibilità che conduce, diretta, a un’altra questione emersa dal dibattito tra operatori immobiliari e sociali: quella dell’anagrafica condominiale. Si tratta di strumento necessario non per punire o reprimere, ma per conoscere la realtà che si nasconde dietro le porte e i portoni, per distinguere chi sfrutta da chi è sfruttato e facilitare le relazioni all’interno dei condominio.

La mancanza di conoscenza del proprio vicino è all’origine del sospetto che, a sua volta, genera paura e moltiplica la diffidenza e il senso di insicurezza, in un circolo vizioso che fa perdere qualunque legame di comunità.

La questione, allora, diventa più ampia e porta al diritto alla casa come diritto da cui si propagano molti degli altri diritti fondamentali dell’individuo: è la casa – intesa come spazio di vita adeguato alle esigenze del singolo e della famiglia – il luogo da cui può partire un serio percorso di superamento delle fragilità e di promozione di quelle relazioni positive che, da sole, possono contribuire significativamente a cambiare la pelle dei luoghi più degradati.

È la casa il luogo da cui parte la costruzione della propria famiglia – di qualunque famiglia si tratti – e del proprio futuro. Il diritto alla casa, inteso come diritto a vivere in un luogo sicuro e dignitoso, come diritto e dovere di contribuire alla propria comunità e a prendersene cura, come diritto alla socialità e a uno spazio dove costruirsi un futuro, diventa la chiave di volta nel racconto di via Padova e di molte periferie urbane.

Con una variabile in più: siamo in un quartiere dove non c’è edilizia popolare e allora l’intervento del pubblico si fa più complesso e deve far leva su elementi innovativi.

Gli strumenti ci sono – cito la legge 475 del 1978 (Recupero del Patrimonio edilizio esistente) o i piani di recupero obbligatorio già sperimentati a Torino ma anche, restando a Milano, gli art. 11 e 12 del Regolamento Edilizio o, spostandoci sul piano delle soluzioni software, sportelli di mediazione, forme di co-progettazione e co-finanziamento, sportelli dell’abitare (soluzioni discusse anche da progetti e laboratori già conclusi). Ma vanno ripensati, aggiornati, adattati e – banale, ma non scontato – finanziati (che significa anche reperire, a partire dal bilancio del comune, fondi per gli interventi software nelle periferie).

Sperimentando, partendo magari da un numero limitato di casi particolarmente gravi o rappresentativi (e quindi più facilmente replicabili una volta avviata la sperimentazione).

Sapendo che sperimentare significa anche accettare la responsabilità di sbagliare; quello che invece non si può più fare è aspettare, perché quelle che emergono da dietro i portoni di via Padova – la perdita di ogni sicurezza e la distruzione dei legami di comunità – sono questioni destinate a diventare sempre più attuali in un’epoca segnata dall’aumento delle disuguaglianze e dalla riduzione (o scomparsa?) delle opportunità di emancipazione per chi parte da più indietro. Milano vuole guidare l’Italia e vuole farlo portando avanti tutti, anche chi è rimasto indietro.

Questa è l’occasione per farlo: costruendo una mappa del “già fatto” e del “da fare”, con una presenza forte e visibile dell’amministrazione (che è evidentemente ben di più del pattugliamento delle forze dell’ordine) e con un lavoro congiunto, collettivo e collegiale che parta dal governo della città e coinvolga cittadini e operatori (amministratori di stabili, mediatori culturali e operatori sociali)

Fare politica, a partire dalle periferie, non può che essere un atto collettivo, più che mai nell’era dell’individualismo e dell’io.

Elena Comelli



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