20 dicembre 2016

LA LINGUA VENETA. DALLA BABELE DELLE LINGUE ALL’INGOVERNABILITÀ

Il Consiglio Regionale del Veneto trasforma il dialetto in lingua


8 dicembre 2016. Sulle prime pagine dei quotidiani si parla di crisi di governo, legge di stabilità e di Madama Butterfly. All’interno, nelle pagine dedicate al costume e alla cronaca, ci si imbatte in una notizia decisamente interessante. La notizia arriva dal Veneto: il Consiglio regionale del Veneto ha approvato una legge che dichiara il popolo veneto “minoranza nazionale”, individua nella “lingua veneta” una “lingua minoritaria” e istituisce il bilinguismo, con tutti i conseguenti effetti giuridici di tutela della “lingua veneta” negli uffici e negli atti pubblici.

09alesso_clocchiati42fbA oggi non è dato sapere se il modello cui il Consiglio regionale vorrà ispirarsi sarà quello della Valle d’Aosta, dell’Alto Adige o del Friuli Venezia Giulia dove effettivamente esistono minoranze francofone, tedesche e slovene. Né è dato sapere in quali termini e misura sarà di ispirazione per “l’autonomia lombarda” con il referendum che qui ci attende la prossima primavera. Nel frattempo è probabile che intervenga – e in questo senso vanno le dichiarazioni delle opposizioni – la impugnazione della legge per l’invio all’esame della Corte Costituzionale.

Oggi, oltre ai dubbi, che circolano numerosi anche tra i linguisti, se questa nuova lingua possa mettere d’accordo “le identità” del delta polesano con quelle delle montagne bellunesi, di chi parla veneziano con chi parla il vicentino – senza ovviamente dimenticare gli antichi fasti della marca trevigiana -, quel che colpisce è che la legge si avvale del concetto della difesa dei diritti di una minoranza in un contesto dove la maggioranza detiene il potere.

Una minoranza che parlerebbe il veneto mentre lo Stato, il potere legislativo, esecutivo e giudiziario, parlerebbe l’italiano. Da qui la “necessità” di tradurre gli atti legislativi, amministrativi e giudiziari nel linguaggio corrente e quotidiano.

Che nel nostro Paese la lingua del legislativo, esecutivo e giudiziario sia una lingua diversa da quella parlata dagli italiani è cosa nota, che sia una lingua oscura, sleale e ostile anche, ed è probabilmente su ciò che in molti è attecchito l’entusiasmo per un linguaggio familiare, accessibile e accogliente.

E tuttavia è forse il caso di sottolineare che la lingua utilizzata dal legislativo, esecutivo e giudiziario non è la lingua italiana. L’italiano lo parliamo noi, le leggi, gli atti e i provvedimenti amministrativi parlano un’altra lingua. Quella della Casta dei Burocrati che rende “le parole un bene di pochi, un privilegio”, come ricordava Natalia Ginzburg.

È stato lapidario mesi or sono il Presidente del TAR Lombardia alla inaugurazione dell’anno giudiziario: “Leggi spesso di orribile fattura, scritte non si sa da quante mani, o forse piedi, interpretabili come i vaticini della Sibilla …”. Lo stesso a dirsi per i regolamenti consiliari, le circolari “interpretative”, le determine, le sentenze di difficile comprensione, anche per gli addetti ai lavori, così che con la scusa della competenza tecnica e della precisione scientifica quel linguaggio genera distanza, estraneità e sudditanza, l’esatto contrario della cittadinanza.

In fondo anche la legge veneta alimenta distanza, chiude territori, erige muri fungendo anche da esempio per la moltiplicazione degli idiomi (e solo in Lombardia, nei giorni scorsi a pochi mesi dal già citato referendum dell’autonomia, ne sono stati censiti 12). Lo fa con il pretesto del bilinguismo, utilizzato fuori dal suo senso e dal suo valore: il pluralismo e il rispetto delle diversità che tutela le tradizioni e il passato di popoli radicati in un determinato territorio .

Non è una soluzione far assurgere a lingua i dialetti, abdicando alla lingua che è di tutti, invece di ricordare ai pubblici poteri i propri doveri: la via del linguaggio di tutti per tutti perché chi ha il dovere istituzionale di ‘parlare’ ha anche il dovere di farsi capire. Di un linguaggio, che sia accessibile, chiaro e leale così da aprire a un nuovo rapporto e confronto tra cittadini e istituzioni, alimentando una spirale virtuosa, fatta di conoscenza, di partecipazione e di democrazia perché la chiarezza è una necessità etica e il suo esercizio, pubblico e privato, un diritto civile.

È su questo che si fonda il patto che lega il network di FronteVerso che in questi anni ha dimostrato che anche nel diritto si può utilizzare un linguaggio preciso e comprensibile, andando nella direzione di una comunicazione responsabile così che chiarezza, sobrietà, sintesi e il rispetto per gli altri diventino la regola di ogni linguaggio pubblico.

 

Ileana Alesso Gianni Clocchiatti

 

 



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