30 gennaio 2018

CASE POPOLARI. COLMARE IL DEFICIT DI DIGNITÀ

Quale spazio per il privato sociale nella nuova ERP?


L’articolo del direttore sulle tematiche abitative nell’ultimo numero, quanto mai opportuno per tempi e contenuti, mi spinge a tornare sull’argomento con qualche commento, che riprende miei recenti interventi su Arcipelago.

04deagostini04FBCondivido interamente l’analisi sul disastro della vendita e depauperamento del patrimonio ERP e sulle follie della gestione Aler, ma sul come porvi riparo mantengo un punto di vista un po’ diverso, che deriva probabilmente dalle mie esperienze in materia. In particolare sono convinto della necessità di non separare nell’analisi patrimonio e gestione e, in prospettiva, della necessità di togliere l’” edilizia residenziale pubblica” dal (poco) magnifico isolamento in cui è confinata. E a questo scopo può essere di qualche utilità sviluppare meglio quel “rapporto pubblico privato”, che Luca giustamente ammonisce a non agitare come una panacea.

E’ vero, le “case popolari” sono poche rispetto al bisogno. Ma soprattutto sono poco e male utilizzate. Se fossero utilizzate tutte – e da chi ne ha veramente bisogno – probabilmente il loro numero non sarebbe molto lontano dal coprire tutta la domanda sociale urgente.

Quindi: serve certamente riprendere il finanziamento pubblico per la casa, ma non tanto per realizzarne di nuove, quanto per conseguire -anche col recupero del degradato- il pieno impiego dell’esistente e, in secondo luogo, per coprire/integrare i canoni di chi non ce la fa (e non ce la può fare) a pagarli: essendo, appunto, folle anche solo immaginare nelle attuali condizioni una gestione in equilibrio dell’ERP, come è stato fatto da Aler e dalla politica nazionale e regionale.

Inoltre, a mio avviso, la causa principale dell’attuale situazione sta soprattutto nella totale e pertinace “separatezza” della gestione elefantiaca dello Iacp, il quale -non dimentichiamo- gestiva fino a poco fa anche il patrimonio del Comune. Per questo penso che una gestione unica e separata dell’ERP, che continui a restare un mondo a parte (un “fortino” da difendere, anche da parte del sindacato, da ogni contaminazione), non farebbe che perpetuare, e forse aggravare, tutti i guai di oggi: l’isolamento e la segregazione dei più disagiati, la guerra tra poveri con le occupazioni abusive e così via.

Per questo mi pare invece che l’impostazione della recente legge regionale 16/2016, riconoscendo le diverse forme di offerta abitativa pubblica e sociale come un tutto unico e affidando al sostegno dei Comuni (e qui servono i soldi dello Stato e aggiungerei anche della Regione) le condizioni più estreme di disagio, indichi una strada diversa. Nella giusta direzione, che persegue in prospettiva: il mix sociale e funzionale, la mobilità fra le forme di offerta abitativa – pubblica e privata, il recupero dello sfitto e sottoutilizzato. Prima -o piuttosto- di nuove costruzioni, più facilmente vocate a ripetere il modello segregante.

Come ho già scritto nello scorso aprile su Arcipelago, “Una nuova Edilizia Residenziale Pubblica è possibile?”: fatta di case come le altre e fra le altre, distribuita nella città e liberata dallo stigma della diversità. E stanno a dimostrarlo alcune pratiche realizzate, come le Quattro Corti a Stadera (sul recupero dell’esistente) e Vivi Voltri alla Barona (nuova costruzione, integrata).

Ed è proprio sulla gestione che i soggetti del privato sociale che li hanno realizzati hanno dato e stanno dando il contributo più nuovo e importante, garantendo qualità di vita, sicurezza, coesione sociale in queste “parti di città” dove convivono diverse fasce sociali, incluse quelle più fragili e vulnerabili. E questo modello di “gestione sociale integrata” può insegnare molto ad Aler e Comune, come in parte mi pare stia accadendo per la nuova gestione MM del patrimonio comunale, avviata positivamente, pur fra ritardi e difficoltà, verso il recupero e il contenimento dello sfitto, delle morosità e dell’abusivismo.

E’ qui forse che l’integrazione pubblico – privato cessa di essere uno slogan buono a coprire l’inerzia delle istituzioni e acquista un senso positivo e concreto. Anche se non mi sfugge che gli esempi citati, ad opera della Cooperativa Dar Casa e di non molti altri, sono poca cosa rispetto alla dimensione del bisogno e che in generale il mondo cooperativo sembra ancora poco incline a farsi carico, anche in piccole quote, della domanda che avrebbe diritto all’aiuto pubblico.

Un Terzo Settore Abitativo, capace di contribuire in modo integrato a soddisfare una parte significativa della domanda sociale, è dunque ancora di là da venire, ma sarebbe importante che quanto fatto in questa direzione venisse valorizzato, incoraggiato e sostenuto. Più di quanto non accada.

Sergio D’Agostini



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