8 febbraio 2017

TRUMP IL MESSIAH

Francesca Gentile e Roberto Brambilla: due voci da New York


Sono arrivato negli USA il giorno della “incoronazione” di Trump e il giorno dopo ho partecipato a una delle imponenti marce di protesta organizzate in tutte le grandi città americane. A New York l’appuntamento era davanti alla sede dell’ONU e il mezzo milione di persone che vi ha partecipato avrebbe voluto arrivare fin sotto la Trump Tower, sulla Fifth Avenue. Senza farsene accorgere e mettendo in opera una quantità impressionante di transenne, la polizia ha chiuso la folla dei manifestanti in una sorta di recinto per cui non era più possibile andare né avanti né indietro, e neppure uscire dalla manifestazione senza passare da un punto di controllo.

03viola05FBDella straordinarietà dei cartelli portati alla manifestazione da uomini, donne e bambini, tutti  svillaneggianti il neopresidente e inneggianti alla libertà e alla democrazia, si è parlato molto e si sono viste le immagini sui giornali di mezzo mondo. La cosa più straordinaria è stata a mio avviso la compostezza della manifestazione (nulla a che vedere con quella del giorno prima a Washington dove si sono esibiti i soliti “black-block”) e l’atmosfera di serena solidarietà e di reciproca fiducia stampata sul volto della gente, che sembrava dicesse “suvvia, scherziamoci su, buttiamola in ridere e finita lì”. Persino i poliziotti, pur nella precisione ed efficacia della loro azione di contenimento – e a dispetto della loro arcigna fama – erano sorridenti e tolleranti.

Finita l’atmosfera festosa della marcia, nelle ore e nei giorni successivi, si è sentita come calare una cappa di piombo sulla città. Espressioni tese e preoccupate, diffusi atteggiamenti di ostilità nei confronti della nuova presidenza, segni di ironico dissenso e di presa di distanza, talvolta perfino nelle vetrine di negozi e ristoranti. Il giornale “America Oggi”, unico quotidiano in lingua italiana (a New York è impossibile trovare quotidiani italiani, anche il Corriere della Sera e la Repubblica sono scomparsi dalle edicole) ha dedicato la doppia pagina centrale a una rassegna molto precisa e circostanziata dei pericoli insiti nel nuovo corso politico con il titolo: “Donald Trump e le armi di distrazioni di massa: la situazione venutasi a creare nei primi dieci giorni di «regno» è preoccupante per tutta una serie di motivi che analizziamo”. Ne ho parlato con Francesca Gentile, giornalista milanese che vive a New York da diciannove anni, che di quel giornale è una importante redattrice, che mi ha detto:

Non abbiamo preso sul serio Donald Trump, non dall’inizio della campagna elettorale, ma da molto prima. Forse da quando lo conosciamo. Ricordo, per citare uno tra i tanti esempi, con quanta ilarità abbiamo considerato il movimento dei “birthers” da lui alimentato, quella “teoria del complotto” che non credeva nella nazionalità americana di Obama. Potevamo non riderne? Impossibile. Ora, dopo le elezioni, la voglia di scherzare ha lasciato il posto a una sorta di sgomento. Ogni mattina, dopo aver scorso le news, ci poniamo la stessa domanda: e adesso che facciamo?

I primi giorni della presidenza sono stati sia efficaci nel ribadire un’agenda annunciata, sia paradossali. Viene la tentazione di paragonarli ad un funesto reality show. Come abbiamo potuto sottovalutare il fenomeno Trump? Noi liberal e “saputelli” dobbiamo cominciare a riconoscere quanto le teorie di Steve Bannon, vera anima di questa presidenza, basate sul rilancio del capitalismo e della cristianità, siano profondamente radicate in America. Quanto i fuocherelli appiccati dal Tea Party abbiano dato il via a un incendio di grande portata. Molti cataclismi storici si sono presentati senza farsi precedere da un biglietto da visita. E allora? Che cosa facciamo? Citerei la storiella dell’allievo che filosofeggia sull’universo e si prende una bastonata in testa dal suo maestro zen. “E questa che cosa è?” gli chiede il maestro. Ci siamo presi una bastonata in testa, riconosciamola, ripartiamo, organizziamoci, marciamo e confidiamo nella democrazia americana.

Ho poi incontrato Roberto Brambilla, l’architetto milanese che da oltre cinquanta anni vive e lavora anch’egli a New York – che i nostri lettori già conoscono per un recente intervento sul nostro giornale – e ne riporto alcune riflessioni:

Se penso a Trump (tanto per cambiare) e alle ripercussioni della sua ascesa, ciò che più mi spaventa della situazione politica attuale degli Stati Uniti è che questo nuovo Presidente stia facendo sul serio. Contrariamente all’opinione diffusa che la sua campagna fosse dettata soltanto da considerazioni di marketing (una strategia per eliminare gli avversari prima e per riscuotere consensi dopo), Trump sta dimostrandosi ideologicamente “committed”, e desideroso di attuare fino in fondo la svolta politica radicale che ha ipotizzato nel corso della campagna elettorale.

Per quanto consapevole che la politica sia l’arte del compromesso (soprattutto in una cultura pragmatica come quella degli Stati Uniti), e che non ci sia spazio per svolte di carattere ideologico (neppure Obama ha osato realizzare i cambiamenti auspicati nella sua campagna elettorale), la maggioranza degli americani sembrava convinta che i principali obiettivi del nuovo presidente e dei suoi adepti fossero economici, e che il consueto pragmatismo del “politically-correct” avrebbe presto preso il sopravvento. Quello che sta accadendo, però, è radicalmente diverso: Trump si sta impegnando per cambiare le regole del gioco, anche se questo dovesse risultare un danno economico per il Paese e per i suoi personali interessi. E ciò che più sorprende e spaventa è il suo “iper-attivismo”, dettato da furore ideologico, che sta per travolgere sia l’America sia gli altri paesi occidentali allineati filosoficamente ed economicamente sulle stesse posizioni liberali.

Altro che “più le cose cambiano e più tutto resta lo stesso”: Trump sembra volersi reincarnare in un nuovo Messia capace di ribaltare l’ordine (o il disordine) esistente. E questo suo “attivismo” sembra alimentare i consensi riscontrati nei sondaggi d’opinione; siamo talmente abituati all’immobilismo dei politici (dettato dal timore di sbagliare e di essere responsabilizzati e colpevolizzati) che questo cambiamento di marcia viene giudicato positivo, a prescindere dal valore delle decisioni prese.

L’idea che Trump “faccia sul serio!”, e che quindi “non sia un buffone come tutti gli altri”, sembra venire interpretato come un passo avanti, una formula popolare di progressismo, mentre la “resistenza” rischia di essere percepita come conservatrice e antidemocratica.

È un fenomeno che non è limitato agli Stati Uniti: Grillo, Salvini, Farange e Le Pen giocano queste stesse carte riscuotendo consensi crescenti.

Che fare allora? Resistenza a oltranza, restaurazione o contro-attivismo?

Delle tre alternative possibili, la “Restaurazione” è la più debole in quanto antistorica, la “Resistenza” è inefficace in quanto passiva (anche perché Trump ha la maggioranza alla Camera, al Senato e alla Corte Suprema). Per cui l’unica strategia possibile è quella di creare – a scala planetaria visto che in meno di cent’anni la configurazione geografica del pianeta terra sarà diversa – un nuovo “progetto liberale” che offra una visione alternativa anche del ruolo dell’America nel mondo, una visione non solo politica ma anche economica, culturale e ambientale. Se cerchiamo di interpretare quello che sta succedendo in USA dopo la presa di potere di Trump, vediamo che la prima reazione è stata lo shock, la seconda il lamento (e tutto questo è già passato), ora siamo già alla riflessione sull’azione (o la strategia) necessaria per ribaltare la situazione: bisogna tagliare le gambe a Trump, cioè diminuire il suo consenso negli elettori, cioè in quella accozzaglia di persone che non legge il NY Times o il Washington Post (o simili).

L’elezione di Trump è il risultato dell’inquadratura di milioni di malcontenti in un movimento politico (strategia oggi perseguita con successo anche in Europa) che rischia di azzerare i progressi sociali degli ultimi sessant’anni. Trump ha dato loro la speranza di essere “ascoltati” e il suo potere dipende dal loro consenso e apprezzamento. Ma dal momento che gli elettori di Trump (e, parallelamente, anche quelli di Salvini, Farange e Le Pen) esprimono una visione del mondo storicamente, culturalmente, economicamente e tecnologicamente superata, la soluzione è quella di contrapporre un’altra visione che non li escluda come è successo finora. La globalizzazione, l’automazione, l’abolizione delle frontiere sono ormai “faits accomplis”, e il mondo si muove in una direzione opposta a quella propugnata da Trump & Company. Solo ciechi, ignoranti o retrogradi possono riproporre i nazionalismi, le autarchie, le discriminazioni razziali, culturali o di sesso nel mondo di oggi. Tutto questo è chiaro a tutti, soprattutto ai giovani, alle donne, ai “non bianchi” e ai “decision-makers”.

La rivolta dei malcontenti è principalmente di natura economica, per cui basterebbe un maggiore sforzo di natura assistenziale per neutralizzare il supporto di Trump. Mentre la vittoria di Obama, otto anni fa, era fondata sulla speranza di un futuro migliore, quella di Trump è basata sul risentimento di coloro che hanno perso la speranza. Un nuova visione liberale diretta a correggere sia gli errori del capitalismo selvaggio delle multinazionali che gli squilibri economici, culturali e sociali della globalizzazione, potrebbe far rifiorire le speranze perdute e sgominare questi rigurgiti del passato.

Ma come pensi che si possa agire concretamente?

Lo strumento di diffusione più efficace di questo credo è Internet in quanto consente una comunicazione istantanea nella dimensione globale. Questo movimento alternativo è già attivissimo, come dimostrato dalla marcia delle donne a Washington e dalla protesta simultanea di migliaia di cittadini negli aeroporti. E mentre Trump si sforzava di negare le proteste con “alternative facts”, i media mostravano in diretta le immagini reali di quanto stava avvenendo; che non era il risultato di avvenimenti spontanei, ma di una strategia coordinata via Instagram. Questa strategia è ben avviata e comincia a funzionare; in breve, l’America è tutt’altro che rassegnata e la vittoria di Trump potrebbe rivelarsi l’inizio di un nuovo movimento politico liberale a scala globale.

Ma pensi veramente che si possa raggiungere qualche risultato?

Trump ha circa il 45% del consensi e per incidere su questa percentuale bisogna cambiare messaggio e messaggero. Il messaggio vincerà (alla lunga) perché è un messaggio positivo e di speranza, mentre il messaggero deve avere un appeal sull’elettorato di Trump, deve cioè saper criticare il “sistema” con la stessa energia dimostrata da Trump. I leaders di opposizione con un messaggio positivo e un appeal popolare sono Obama e Bernie Sanders, due personaggi che non predicano la “resistenza” ma una politica diversa. Questo appello per una nuova politica potrebbe risultare vincente dopo l’inevitabile delusione che seguirà gli effetti delle decisioni di Trump.

Auguri. A noi resta la magra consolazione di non essere più i soli ad avere un paese sfiduciato e di doverne perennemente sognare la rinascita.

Paolo Viola



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