23 gennaio 2013

URBANISTICA: BENI COMUNI E GOVERNO BREVE


La crisi economica sta mostrando tutti i limiti della politica per come si è venuta configurando negli ultimi decenni: il suo essere calibrata sulla ricerca del consenso nel breve periodo (quello dei mandati elettorali). Questo ha contribuito a lasciare fuori dall'”agenda politica” molte questioni strategiche, in particolare su due versanti: 1) la competitività dei contesti regionali in un’economia globalizzata; 2) la qualità della vita e la crescita culturale. Per limitarci all’Italia, sul primo versante spicca l’assenza di una politica di potenziamento della ricerca e della formazione; sul secondo parlano lo scempio che si è consumato nell’ambiente e nel paesaggio e il regresso civile (di cui il basso livello della politica è indicatore primario). Pensare di uscire dalla crisi senza affrontare questi nodi strutturali non può che portare a ulteriori fallimenti.

Su un punto almeno sembra crescere la consapevolezza: uno sviluppo che torni a basarsi sulla rapina e la dilapidazione dei beni comuni non ha futuro. Ma qui bisogna intenderci. Le regole scritte e non scritte, le buone maniere, la socialità e l’urbanità sono beni comuni non meno dell’aria, dell’acqua, del suolo, delle infrastrutture pubbliche e del patrimonio culturale in senso lato. In altre parole l’orizzonte va allargato a tutto quanto concorre a definire il grado di civiltà e a dare alla convivenza un carattere civile. Se sulla sostenibilità ecologica i politici più avvertiti provano a delineare programmi e a prendere impegni, sulla sostenibilità sociale latitano. O meglio: mentre la destra punta su sorveglianza e militarizzazione pensando che la politica della paura paghi in termini elettorali, la sinistra stenta a comprendere che l’urbanità è una risorsa: che vi sono pratiche che concorrono a garantire la sicurezza semplicemente favorendo le relazioni sociali e migliorando la qualità dell’ambiente di vita.

I politici nostrani sembrano ignorare che la qualità della vita e delle relazioni sociali dipendono non poco da come si dislocano le attività umane, si strutturano le relazioni e si definiscono gli assetti insediativi, la spazialità e la qualità architettonica dei luoghi. A loro volta gli operatori privati, a cui molto è delegato in questo ambito, si dimostrano per lo più indifferenti finendo per danneggiare se stessi, non comprendendo che la qualità urbana è essenziale anche per la riuscita delle loro iniziative.

Di tutto questo non c’è traccia nei programmi di chi si candida ad amministrare la Regione Lombardia nei prossimi cinque anni. Anche l’ottimo Ambrosoli su questo fa scena muta. E il silenzio della politica vecchia e nuova rinvia a un vuoto più ampio: mostra i gravi limiti dei saperi specialistici che si arrogano competenze esclusive in materia (mentre si pongono come consiglieri del Principe), per non dire dell’analfabetismo di massa su questi temi.

Occorre una grande mobilitazione di intelligenze e di energie per cambiare rotta. C’è da vincere una sorta di rassegnazione, di senso dell’ineluttabile, che ha portato di fatto al non governo della trasformazione dell’ambiente fisico. Con il risultato che dissipazione delle energie e disgregazione caratterizzano la cosiddetta città diffusa, mentre si offrono varchi per l’assalto a quel che rimane della città compatta. La legge urbanistica della Regione Lombardia – la legge12 del 2005 – è stata generata dall’idea che occorresse facilitare quanto possibile l’intervento privato, ovunque e comunque. La possibilità di trasferire gli oneri di urbanizzazione al bilancio corrente ha poi trasformato i Comuni in soggetti cointeressati alla devastazione, quando invece andavano sollecitati a svolgere il compito di custodi dei beni comuni e di guida delle trasformazioni. Le gravi carenze in fatto di cultura della città in funzionari, tecnici e amministratori ha fatto il resto.

Intendiamoci: l’alternativa non può essere la semplice urbanistica delle regole e dei vincoli. Senza una politica attiva, regole e vincoli si riducono ben presto a fragile diga. Del resto a determinare la sconfitta della gloriosa urbanistica degli standard è stato anche il disinteresse, quando non l’incapacità, dei suoi protagonisti sul fronte del disegno urbano e del paesaggio. Invece che rinserrarsi in una difesa delle posizioni, la battaglia andava – e va – estesa dimostrando come possa essere governata la tendenza insediativa (in una visione organica col sistema dei trasporti) e come debbano essere organizzati gli insediamenti per assicurare insieme efficienza, competitività e sostenibilità ecologica dei contesti metropolitani, una migliore organizzazione della vita associata e, non meno necessaria, la bellezza ospitale dei luoghi e dei paesaggi.

Ma sulle ragioni e sui valori civili che dovrebbero presiedere al governo delle trasformazioni territoriali e al disegno urbano urbanisti e architetti, e gli stessi cultori delle scienze sociali, hanno da tempo scelto di non misurarsi e comunque di non esporsi, contribuendo in tal modo al diffondersi di un senso d’impotenza. Si spiega così la delega totale all’iniziativa privata nel definire i quadri ambientali e la “scena” della vita individuale e collettiva: un’egemonia legittimata solo dal mercato e non certo da meriti guadagnati sul campo. La stessa fortuna degli archistar è uno dei frutti di questa delega senza condizioni: la povertà delle realizzazioni che portano la loro firma, per non dire dei fallimenti che li vedono coinvolti, sono tra i risultati di questi decenni di non governo.

Oltretutto il rapporto pubblico/privato nella trasformazione dell’ambiente fisico è asimmetrico: non c’è equilibrio fra gli oneri di cui viene caricata la pubblica amministrazione nella realizzazione e manutenzione delle infrastrutture (in senso lato) e la rendita di posizione incamerata dalla proprietà immobiliare: il conto è decisamente a favore di quest’ultima. Se poi si aggiunge la ricaduta che le scelte urbanistiche hanno sul terreno dell’economia e su quello della vita individuale e collettiva, ci sono solide ragioni per rivendicare la ridefinizione del potere contrattuale dello Stato e degli Enti Locali. Vani sarebbero però gli sforzi in tal senso se non si mettesse in moto un profondo cambiamento culturale e politico, che coinvolga in primo luogo chi, a vario titolo, ha responsabilità nel governo e nella gestione delle trasformazioni dell’ambiente fisico

Ma per essere efficace la crescita culturale deve interessare l’intero corpo sociale. È questa una delle ragioni di fondo che deve portare a una radicale revisione della legge 12 (che, mentre contempla fasulle procedure di partecipazione, negli ultimi aggiornamenti arriva addirittura a contemplare la possibilità di esautorare i consigli comunali dalla discussione su importanti scelte urbanistiche). Troppe volte il coinvolgimento dei cittadini è stato declinato nell’ottica della conquista del consenso. La partecipazione va invece vista in chiave di crescita di una cultura estesa sui temi dell’ambiente e della conformazione fisica degli insediamenti e dei paesaggi. Occorre che i progetti vengano adeguatamente presentati ai cittadini, istituendo un ponte fra esperienza di vita e saperi tecnico-disciplinari così da fare della discussione sulle alternative un fondamentale momento di crescita civile.

 

Giancarlo Consonni

 



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