28 Ottobre 2025

L’ERESIA DI BARICCO NELLA STORIA DELLA MUSICA CLASSICA

Novità in libreria 


Lettore fedele, non foss’altro che per motivi generazionali, di Corrado Augias, mi ero appena adagiato nella “comfort zone” del suo recente “La Musica per me”, quando è piombata la Breve Storia Eretica della Musica Classica, ultimo parto dello straordinario e fecondo storyteller Alessandro Baricco, la cui predilezione per la musica ci ha da tempo affascinati, sin dalla lontana serie televisiva “L’amore è un dardo” del 1993.

Anzitutto capiamo in cosa la sua breve storia della musica classica è “eretica”. In effetti, di tradizionale, non c’è che la scelta del criterio temporale, che segue gli sviluppi dell’arte musicale dagli albori ai giorni nostri. Per il resto, Baricco ricorre a tutti gli strumenti della ragion critica (dall’antropologia alla tecnica musicologica, dalla critica letteraria alle categorie socioeconomiche marxiane, dalla metodologia strutturalista sino alla citazione di fonti rare e sofisticate) per costruire il suo percorso lungo i millenni riuscendo a far coesistere divulgazione, analisi “tecnica” e, a nostro avviso, una sua personalissima poetica.  

Secondo Baricco, nel corso dei secoli, il “popolo dei musici” si è trovato ad oscillare fra due poli: da un lato la musica come “espressione divina” dell’armonia del Cosmo; dall’altro la musica come faticosa, progressiva conquista della creatività umana: una dialettica tra due concezioni ontologiche, più semplicemente: una creazione artistica indissolubilmente legata alla fede nella trascendenza e quella, opposta, frutto della concezione laica dell’esistenza e della cultura. 

Quattro sono i grandi periodi nei quali l’autore divide l’intera storia: la Prima Musica; l’Età del Disordine; il Big bang (dal XVIII secolo in poi) e la Musica moderna.

Personalmente, ho trovato particolarmente affascinante ed originale il racconto dei primi due periodi, nei quali l’autore ha scavato con maggiore profondità ed originalità, con una persuasività inversamente proporzionale al valore che noi attribuiamo alle diverse espressioni musicali di quelle epoche: man mano che il racconto si avvicina ai territori più esplorati dalla storiografia musicale diventa più arduo destreggiarsi fra gli interstizi di una saggistica sterminata. 

Dunque, cominciamo dalla Prima Musica: all’inizio era il suono, puro, casuale, originato più da fenomeni naturali che da espressioni umane: il vento, le voci gutturali degli animali selvaggi, i rumori sprigionati dagli eventi terrifici, cui gli uomini dell’epoca attribuivano significati e dunque già elementi parte di un linguaggio.

Fra le manifestazioni dei primi millenni, Baricco si sofferma sulla singolarità della storia dell’arte ellenica, lo iato fra la musica e tutte le altre manifestazioni del pensiero creativo e speculativo della cultura greca. Inspiegabilmente, alle monodie che accompagnavano le loro rappresentazioni, i Greci non sentirono il bisogno, o non furono in grado, di dar forma, raggiungendo quel livello di perfezione che ancor oggi ci appare come il modello inimitabile del pensiero umano ed a cui è stato, per ciò, attribuito il nome di “classico”. L’attribuzione di un valore che soltanto dopo molti secoli ed alla fine di questa storia, potrà essere finalmente concesso anche alla musica, dalla seconda metà del Settecento in poi. Unica, rilevante eccezione all’afonia dei Greci antichi fu Pitagora (VI secolo a.C.) che sperimentalmente scoprì l’esistenza di rapporti matematici fra i suoni facenti parte di un’ottava: la prova inconfutabile che i suoni non erano originati da forze oscure ed irrazionali ma facevano anch’essi parte di quell’ordine superiore che regola tutte gli elementi del Creato. La Prima età della musica raggiunge il suo apice con il Canto Gregoriano, quegli “infiniti rigagnoli monodici” che accompagnavano i riti ecclesiastici della cristianità. 

Sul volger dell’anno mille, l’espressione musicale sale un gradino fondamentale, divenendo finalmente grammatica trasmissibile: Guido d’Arezzo dette il nome che ancora oggi hanno ad una prima sequenza di sei suoni, dal Re al La. Secoli dopo, si aggiunsero il Do (che d’Arezzo chiamava “Ut) ed il Si, completando così l’odierna scala musicale.

La nascita della Seconda età, quella del Disordine, ha una data certa: un tale Léonin, Maestro della Scuola di Notre Dame, il giorno di Natale del 1198, intona un canto in cui alla prima voce si accompagna una seconda, traslata da un intervallo fisso: era nata la polifonia.  Con essa si aprirono le porte ad infinite possibili variazioni, infrangendo i confini  nei quali era stata sino ad allora costretta la creatività musicale. Nei secoli successivi, il canto polifonico sembra non aver più limiti: agli inizi del Cinquecento, un musicista inglese, Thomas Tallis compone un mottetto, “Spem in Alium”, con un organico addirittura di 40 voci che concorrono alla creazione di una immensa spazialità sonora, con un “effetto emotivo sconvolgente”. Scrisse il trattatista olandese Johannes Boen intorno alla metà del XIV secolo: “Molti suoni nuovi e mai sentiti si vedranno con il passar del tempo”.

Si comincia ad usare il termine “concerto”, ancorché la sua etimologia (dal latino certare, che significa gareggiare, combattere, contendere) abbia un significato esattamente opposto a quello che, nei secoli seguenti e sino ad oggi, indica il concorso armonico di voci e strumenti diversi.

L’età del disordine, che abbraccia due secoli, annovera fra i suoi maggiori protagonisti Piergiovanni da Palestrina ed Arcangelo Corelli. Tanti modi diversi di far musica, affiancando alle voci umane gli strumenti musicali, che hanno in comune la “devastante blasfemia” di correggere quel sistema armonico di origine divina che “facendo acqua da tutte le parti” consentì agli uomini di mettere a punto “qualcosa di più efficiente”: si transita così a quella disposizione, quella postura dell’animo e del gusto che definiamo il Barocco

Questa musica si conviene all’esprit du temps ed all’organizzazione sociale dominante: a soddisfare il  Re Sole ed i sovrani delle grandi corti d’Europa non potevano più essere i madrigali con le loro intime raffinatezze, ma occorrevano musiche scenografiche, capaci di sviluppare un maggior livello di suono ancorché prive di qualsiasi altro spessore: avrebbero trovato il loro massimo autore in Jean Baptiste Lulli,  le cui opere, dette “musiche del nulla”, ben riflettono il gusto imperante di quelle autarchie.

Di questi anni è anche l’invenzione del “basso continuo”, l’appoggio armonico fungibile per qualsiasi melodia, una tecnica che valorizza il linguaggio musicale, utilizzando strumenti quali il clavicembalo o l’organo. La musica diventa un “linguaggio umano che si appresta a narrare i sentimenti”.

Verso la fine dell’età del Disordine compare un nuovo “prodotto”:  a Venezia – patria del più grande evento-spettacolo dionisiaco, il Carnevale – nei primi anni del XVII secolo si danno con grande successo le prime rappresentazioni di Teatro musicale, coinvolgendo musica, canto e scenografie nel racconto di storie, privando la musica della sua originalità di arte immateriale ed astratta; al Teatro musicale il popolo dei musici fornì “manovalanza, sapere artigianale e tecnologia”; in cambio ebbe la conferma del modello melodia-base armonica e dell’esistenza  di un “pubblico” su cui l’ industria culturale poteva contare per investire i costi della rappresentazione musicale; lo spettacolo  musicale cesserà di essere riservato alle élites politiche o liturgiche, diventando l’evento attorno al quale si consolidarono i comportamenti della nuova classe sociale. Nasce così un nuovo costume, la separatezza tra chi suona e chi ascolta, “l’artista sull’altare e l’ascoltatore in ginocchio”. Si organizzano le tribù che nella musica trovano il loro collante, al cui servizio vengono edificati i primi grandi teatri. È con Claudio Monteverdi ed il suo Orfeo che nasce l’opera lirica come la conosciamo oggi.

L’età del Disordine ebbe termine grazie alla comparsa quasi contemporanea sulla scena di due grandi musicisti: Johann Sebastian Bach e Georg Friedrich Händel. A questi profeti di una nuova forma di ordine si deve la magistrale opera di riorganizzazione e razionalizzazione della scrittura musicale: in un solo ventennio (1710 – 1730) le “mille energie che avevano generato il disordine si incanalarono in un’unica, grandiosa visione: l’avremmo chiamata la “Musica Classica”. Dopo i precursori “Concerti Grossi” di Arcangelo Corelli, nel breve volgere di pochi anni nascono i primi grandi capolavori della musica strumentale: dal Clavicembalo ben temperato, alle Quattro Stagioni.  

Baricco dà alla fase successiva il nome di “Big Bang”, definendo le novità di questo ventennio rispetto alle tradizioni precedenti un “terremoto”, una “scossa elettrica”, l’improvvisa accelerazione dell’evoluzione musicale: nel volger di due decenni vengono pubblicati (e quindi diffusi) i 12 Concerti Grossi di Corelli; un musico francese, Jean Philippe Rameau, scrive il “Trattato dell’Armonia” fissando in 24 le “zone dell’udibile” (tonalità) in cui si considera divisa un’ottava; J.S. Bach pubblica il primo volume del Clavicembalo ben temperato; Bartolomeo Cristofori costruisce il primo Fortepiano (nel quale le corde non son più pizzicate ma percosse, consentendo all’esecutore di ottenere infinite possibilità espressive, pari a quelle della voce umana); e Vivaldi scrive le Quattro Stagioni, l’opera di massimo e più duraturo successo di tutta la storia della musica classica. 

Con quella capacità che Baricco possiede nel far diventare verosimile anche ciò che non è vero ma potrebbe/dovrebbe esserlo, l’autore sostiene che l’opera-crinale, dopo la quale nulla sarebbe stato più uguale, sia “Das Wohltemperierte Klavier”, i 24 preludi e 24 fughe di Johann Sebastian Bach, da considerarsi alla pari di un “testo biblico scritto da un Sommo sacerdote”, dove il “ben temperato” indica che lo strumento è accordato in modo da poter suonare tutte le tonalità, maggiori e minori. 

Il passo successivo fu quello di “sdraiare a terra” quei suoni riuniti in “concerti” strumentali ma rimasti astratta bellezza: da un certo punto in poi i concerti cominciarono a diventare “narrazione”, capace di raccontare le mille manifestazioni dell’esperienza umana: fu a questo punto che la musica riuscì ad “entrare in risonanza” con la sensibilità della gente, che divenne “pubblico”: a Londra ed a Parigi nascono le prime Associazioni che riuniscono il popolo dei musici, che si delizia delle perizie esecutive dei maestri suonatori e si costruiscono spazi adatti ad ospitarle.

La musica, diventata linguaggio, espressione artistica “stabilizzata”, necessita di un ordine definitivo che ne consenta la conservazione e la trasmissione: fu quindi universalmente accettato il numero di note presenti in un’ottava, dodici, invece che un numero legato alla sensibilità dell’autore (Mozart padre ne sentiva 19, Newton 53, ecc.);  una traumatica ma necessaria semplificazione, che spalancò le porte ad una produzione che, con il trascorrere degli anni divenne sempre più ampia ed attrattiva; un evento, nota Baricco, per molti versi simile a quello accaduto negli scorsi decenni nell’informatica digitale, dove l’invenzione dell’algoritmo che conosciamo come “formato mp3” ha permesso, grazie ad una drastica ma inudibile compressione dei suoni, di trasferire gli immensi cataloghi musicali nei nostri devices.  

Sono gli anni in cui si consolida la nuova classe sociale della borghesia commerciale e la “musica classica intercetta con grande rapidità il nuovo potere, incontrando il proprio mercato perfetto”, senza però dimenticare il suo pubblico elettivo, quello delle corti aristocratiche: riuscì così nell’impresa di “cavalcare” i potenti moti rivoluzionari senza subire traumi o divenire divisiva: gran parte della produzione mozartiana, ad esempio, fu apprezzata da ambedue le classi di pubblico, “l’immobilità aristocratica e il dinamismo borghese”. La sua musica si colloca esattamente a metà tra i concerti di Corelli e la Patetica di Beethoven, punto di bilanciamento tra le più diverse tendenze di un intero secolo, la musica di Mozart ne contiene tutti i germi: per questo, per moltissimi la “Musica classica è lui”.

Andrea Silipo



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