28 Ottobre 2025
LA GUERRA DEI BOTTONI DELLE ELEZIONI REGIONALI
Serve invece ago e filo per ricucire un patchwork sbrindellato
28 Ottobre 2025
Serve invece ago e filo per ricucire un patchwork sbrindellato

L’accanimento con cui i politici che contano trattano e contrattano liste e candidati, schieramenti ed equilibri di campo risulta inversamente proporzionale all’affezione che un elettorato pressoché maggioritario riserva ad una politica che conta poco o nulla. Tanto più nelle elezioni regionali, lontane tanto dai fattori di prossimità delle comunali quanto da quel che resta delle opzioni generali, e persino ideali, delle elezioni politiche propriamente dette.
Dunque le urne riservate alla minoritaria quota di votanti per fedeltà (il tifoso o è a vita o non è) nonché alla non irrilevante porzione di interessati al voto di scambio (clientela o lobby). Quello che si riduce è il voto d’opinione, il giudizio diffuso e complessivo sulla capacità dei partiti, di governo e di opposizione, di incidere sulla realtà collettiva.
La gara per conquistare i “governatorati”, misurabile con punteggi tennistici, risulta la principale occupazione di leadership virtuali e caciccati reali, con un impegno pure inversamente proporzionale alla reputazione dell’istituto stesso. Le tristi sorti del sistema sanitario regionalizzato ne è la prova più evidente.
Pertanto un discredito diffuso che porta, su fronti opposti, Isaia Sales e Galli della Loggia ad invocare un commissariamento straordinario, propedeutico alla restaurazione di un neo-centralismo statale (ipotesi meno improbabile della vagheggiata “autonomia differenziata”!).
La costituzione del 1948 volle l’introduzione delle regioni proprio per segnare discontinuità rispetto al centralismo fascista e pre-fascista, poi prolungato dal “centrismo” del ministro dc Scelba. Infatti poterono vedere la luce soltanto nel 1970, dopo un ulteriore decennio di stentato centro-sinistra.
La loro natura era tuttavia lineare: la regione emana “norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabilite dalle leggi dello Stato” (art. 117 originale) ovvero secondo un principio di sussidiarietà sostanziale per quanto non dichiarato. Le regioni inoltre, soprattutto nel primo decennio, applicarono un pluralismo virtuoso che comportò spinte e anticipazioni eclatanti per fondamentali riforme sociali e civili (vedi la sfida fruttuosa tra i cattolici democratici di Piero Bassetti in Lombardia e i comunisti pragmatici di Guido Fanti nell’Emilia rossa).
Lo stravolgimento è avvenuto nel 2001, con la modifica del Titolo V° ispirato dalla originaria Lega di Bossi ed attuato dal tardivo Ulivo di D’Alema. (in clima di inciucio bicamerale!). Gli improvvidi re-costituenti ribaltano l’art. 117 che ora prevede un’ampia ed ambigua “legislazione concorrente” tra stato e regioni. Ora concorrente è un termine equivoco, significa tanto concomitante che contendente. La confusione delle funzioni e dei poteri sarà la cifra delle attuali regioni, a dispetto del successivo art. 118 che prevede invano “sussidiarietà, adeguatezza, differenziazione”.
Consideriamo il campo della sanità, dove oggi il disagio di massa è più sensibile. Prima del fatidico 2001 le regioni ripartivano il fondo nazionale tra le unità locali facenti capo ai comuni singoli o associati, cui toccava interamente la responsabilità amministrativa-gestionale. Quindi una partita di giro sulla base della pianificazione dei presìdii ospedalieri e dei servizi ambulatoriali, mantenendo una struttura leggera ed un ruolo essenzialmente politico-programmatico.
Dopo, al contrario la Regione gestisce direttamente la spesa, tramite aziende e manager nominati, esautorando i comuni (poi compensati con la mano libera in materia di governo del territorio!) e trascinando un mastodontico carrozzone burocratico-tecnocratico, traballante pure verso ibridi interessi privatistici. I risultati, sia in termini di efficienza del sistema che di equità sociale riguardo il ‘diritto alla salute’ sono noti!
Per la verità il Titolo V° del 2001 conteneva anche un concetto virtuoso, ispirato all’Europa allora esemplare e promettente, ovvero l’art. 114 che invertiva la gerarchia Stato-Comuni, introducendo tra Province e Regioni le Città metropolitane. Istituzione purtroppo disattesa e vilipesa fino alla fasulla ma tuttora vigente legge Delrio del 2014, peraltro censurata da un puntuale rilievo della Corte costituzionale (sentenza 240 /2021)!
Come se ne esce? Non certo con la puerile guerra per bande, bensì con una matura valutazione critico-funzionale della configurazione e dislocazione dei pubblici poteri. Non la conta dei bottoni strappati ma ago e filo, acume e coerenza per ricucire un vestito dignitoso ad una democrazia sbrindellata, indecente alla vista di gran parte del suo corpo elettorale.
Valentino Ballabio
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