14 Ottobre 2025
“LE COSE DI PRIMA SONO PASSATE” – URBANISTICA
Apocalisse 21/4

“Il vecchio muore e il nuovo non può nascere: e in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati” A. Gramsci. Grande è la confusione nel cielo dell’urbanistica milanese, quale sarà il futuro dei grattacieli nei cortili? La situazione è eccellente per ripensare i modi con cui le città si sono sviluppate e in che maniera ci siamo impadroniti dello spazio naturale e come l’edificazione si sia espansa a macchia d’olio, come dicevamo negli anni ’70.
Mais où sont les neiges d’antan?
Quella stagione di grandi speranze in cui architettura e urbanistica ci pareva potessero salvare il mondo non resta quasi nulla. Volevamo una vita migliore per tutti, una città di cui essere con fierezza tutti cittadini e invece si è andato palesando un rifiuto del progetto inteso come miglioramento delle condizioni per farlo rientrare nel dominio dell’estetica e dello stupore non importa dove non importa per chi. Architettura e Urbanistica sono rientrate nel dominio del Potere; sono i nuovi Principi e i nuovi Papi, incarnati nei Ricchi e Ricchissimi che dettano i modi di occupazione dello spazio.
Ancora oggi si utilizzano i modi “razionali” vale a dire la massima possibilità di sfruttamento della superficie edificabile trasformata da Mq. a Mc. alti, larghi, lunghi fino a là, fino a lassù, fino all’orizzonte; tutto questo si trasforma in una grossa massa di denaro che non deriva dal tentativo di soddisfare dei bisogni ma dalla moltiplicazione miracolosa di superfici in danaro.
Nelle città i bisogni sono sempre stati differenti: a una parte della popolazione serve un tetto, a un’altra parte serve un’acquisizione di status. In linea di massima la pianificazione urbanistica accoglieva queste esigenze destinando ai primi la periferia e ai secondi il centro storico, riconoscendo implicitamente il maggior fascino dello spazio storico.
Chiedersi come mai è opportuno; forse il fascino è dovuto a una maggior compattezza del costruito: gli edifici sono lì, spalla a spalla: vicini, le funzioni sono mescolate e non c’è una noiosa separazione netta tra commercio, attività lavorative e residenza. Gli edifici non sono oggetti di design ma costruzioni che presuppongono anche un’accoglienza per chi si trova a passare anche senza abitarvi. Quegli spazi sono funzionali senza dubbio ma hanno anche un’attenzione al piacere del vivere e ai fatti memorabili di cui la città è stata testimone: fontane, monumenti, iscrizioni a ricordo dei cittadini encomiabili; per non parlare di giardini e di parchi che vi si insinuano.
Si configura così uno spazio pubblico dove si mescolano azioni, incontri e possibilità di rapporti; non è un caso che forse e comunque anche oggi i centri storici siano il teatro della “movida”: un tempo libero liberato dal lavoro. Vorrei qui ricordare un libro degli anni ’50 di G. E. Kidder Smith con l’introduzione di E. N. Rogers e pubblicato dalle Edizioni di Comunità “L’Italia costruisce” dove sono illustrati con dovizia, accanto alle nuove costruzioni, gli spazi urbani esistenti, quelli appunto dei vecchi centri abitati attribuendo a questi una spiccata qualità insediativa e anche a “Villages in the sun” di M. Goldfinger, prefato addirittura da L. Kahn Tutto ciò si perde nelle periferie, la sola funzione abitativa trasforma gli edifici nei dormitori delle grandi città. Non è un fenomeno recente, già nel secolo scorso il problema era evidente ma le convinzioni urbanistico/architettoniche della zonizzazione sono prevalse.
Il racconto dell’architettura moderna, a partire dalle descrizioni esemplari dei quartieri tedeschi, ha sempre privilegiato un’organizzazione degli insediamenti e delle edificazioni improntate a una razionalità geometrica e a un’organizzazione industriale della produzione edilizia, senza considerare che la reductio ad unum sia dell’ambiente naturale che dell’organizzazione polisemica della città non sono purtroppo o fortunatamente possibili. “La favola bella che ieri c’illuse” va rinnovata dalle fondamenta. Cerchiamo di passare dal gelo di un’organizzazione razionale che è tale solo per la rigida distinzione tra le cose a qualcosa che consideri la “pazzia” della vita che pervade lo spazio che decidiamo di occupare, uno spazio in cui ci siamo noi, gli animali, gli alberi, l’acqua, il vento, la pioggia e il sole, cioè il bio cioè la vita nuda nelle sue interazioni e il bios cioè “vita” nel senso del modo di vivere, delle modalità e condizioni dell’esistenza.
Si tratta di raggiungere un compromesso tra il “dominio umano” e il resto dell’ambiente da una parte e tra il “dominio disciplinare” e le condizioni culturali del luogo in cui si opera. A questo proposito vorrei citare la “Maison tropicale” progettata da J. Prouvè da costruire e diffondere nelle colonie francesi africane e edificata in soli tre esemplari perché nessuno volle andarvi ad abitare: materiali inusuali e estranei, forme europee in un paese non europeo. In questo caso, nei casi che stiamo osservando a Milano le quinte del teatro della nostra vita (gli edifici) prendono il sopravvento, dopo il primo OOH! Gli abitanti tornano ad occuparsi d’altro.
Anche noi architetti dopo la solita retorica del: “Ma questa non è architettura” ci accorgiamo che costruire in questo modo tra stupore e occupazione dello spazio non è più sufficiente a garantire modi di vita gradevoli, che uno spazio dove la sola possibilità è il consumo, che uno spazio dove il tempo viene accelerato per non essere perso(?) e il progresso è inteso solo come crescita del PIL senza badare alla felicità forse non è uno spazio razionale.
Mi accorgo che è questa voglia di “architettura” ad uccidere l’architettura, mi accorgo che la costruzione di uno spazio in questi modi produce qualcosa di indefinito e di continuamente modificabile e quindi dimenticabile perché analogo ad altri in altri posti, in altri paesi, in altri continenti e mi passano per la mente le parole scritte da A. Warhol nel suo diario: “La più bella cosa a Tokyo è Mc Donald’s.
La più bella cosa a Stoccolma è Mc Donald’s. La più bella cosa a Firenze è Mc Donald’s.” Penso però che la varietà e la fantasia della cucina italiana e della dieta mediterranea sono molto meglio di un hamburger (rare, medium e well done) con cetrioli, pomodoro e lattuga.
Paolo Aina
UCTAT NEWSLETTER N.81 – SETTEMBRE 2025
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