16 Settembre 2025
CATELLA
Ne "suicida" più la lingua della spada

Mentre ancora il corteo dopo lo sgombero del Leoncavallo marciava lento verso la conclusione in piazza del Duomo e poco dopo l’occupazione del cantiere del Pirellino “contro la speculazione edilizia”, la torre per uffici che fu comunale e che stata ceduta a Coima in un’asta chiusa alla cifra di 175 milioni (base 87), il padrone, cioè Manfredi Catella, irrompeva con un comunicato in cui si chiedeva se le manifestazioni violente con azioni illegali e occupazioni abusive rappresentassero “la nuova proposta del cosiddetto modello Milano, che interpreta la democrazia urbanistica invocata da alcuni”: Concludeva perentorio Catella: “L’opinione pubblica potrà scegliere se è questa la Milano che vogliamo”.
Manfredi Catella può immaginare quel che vuole: violenze, illegalità, connivenze. Lasciamogli appunto immaginare la sua Gotham City, anche se Milano proprio non lo è. Non andiamo oltre chiedendo solo all’immobiliarista che cosa intenda lui per “democrazia urbanistica”, visto che in giro se ne è vista ben poca, se non sotto forma di un confuso “populismo urbanistico”, quando ciascuno senza freni dice la sua.
Anche Manfredi Catella però, tra un abbaglio e l’altro, una domanda seria, indirettamente, ce la pone: quale Milano vogliamo. Avrebbe potuto rispondere lui per primo, visto che Milano la sta costruendo davvero, chissà se sull’impronta di un ipotetico modello a noi mai pervenuto o per occasionali estemporanei episodi, secondo insomma un non-modello, che tiene assieme una infinità di cose e cosucce, dalla deindustrializzazione degli anni settanta ad Amazon che chiude negozi e centri commerciali, dalle stazioni ferroviarie ai lucchettoni degli affitti brevi ben più remunerativi di un affitto normale, dallo stadio Meazza al Covid…
Scriviamo di cose e cosucce che nel giro di pochi anni hanno cambiato o addirittura sconvolto la città. La metamorfosi di Milano è anche, ad esempio, nei dehors. Corso Garibaldi era una via di botteghe artigiane e di case popolari, di osterie e persino di qualche libreria, era stato teatro di una lunga battaglia per l’applicazione della legge 167 per l’edilizia economica, è diventato un marciapiede di tavolini, stretti gli uni agli altri, dove si inghiottono pasti scadenti appena riscaldati in un forno a microonde. Via Paolo Sarpi si presentava negli anni sessanta con qualche ambizione in più: adesso, ZTL, è una cucina cinese dietro l’altra a produrre cibi da asporto, resistono un paio di negozi del tempo che fu e fanno meraviglia, quello dei cappelli o quello delle vernici.
Corso Sempione verso l’Arco della Pace lo si scopriva come il quartiere del lusso residenziale. Ora vive delle stesse esalazioni e degli stessi liquidi di corso Garibaldi o di via Paolo Sarpi, dell’Isola o di Nolo. L’emergenza ai tempi dell’influenza cinese aveva suggerito la necessità di stare all’aperto: adesso stare all’aperto è diventato invasione dello spazio pubblico. Per consolarci, a Roma, appena usciti dalla stazione, si respira aria come si fosse a Bombay o a Calcutta e le persone che popolano i portici sono le stesse di Bombay e di Calcutta
Cosucce, voci anche queste però del modello Milano, quello che ci tocca vedere, chiave forse insuperabile del paesaggio contemporaneo. Un paesaggio che ha ovviamente le sue prospettive positive. Quando mi criticano Milano, città cui sono molto affezionato, ricordo le cinque linee della metropolitana, un sistema di trasporto pubblico che qualsiasi città italiana ci dovrebbe invidiare, mostre e musei, la Scala, pure Porta Nuova e City Life (soprattutto City Life che è un luogo di aggregazione per studenti e pensionati che giocano a carte, tutto “a gratis”, come si sarebbe detto una volta).
Ricordo anche i parchi, quelli centrali e quelli periferici (Trenno, Bosco in città, Parco delle Cave, Monte Stella) che rappresentano altrettante prove di invenzione urbanistica, quando ancora l’urbanistica esisteva e sapeva tenere come riferimento anche i suggerimenti e le battaglie di tanti anonimi visionari: bisognerebbe rileggere le storie di quelle oasi verdi.
Gli stessi che criticano Milano, mi chiedono, per forza, dello stadio di San Siro e qui casca l’asino perché la pluriennale vicenda del Meazza e dell’area che gli sta davanti (cemento impercorribile d’estate per il caldo e le mosche, d’inverno per la nebbia e l’oscurità, una “landa desolata”, come la definì il presidente del Milan, ex Eni, Scaroni: ogni tanto diamo merito al merito) rappresenta secondo me un bel campione di “urbanistica che non c’è”, secondo quindi il “modello” che potrebbe piacere a Catella, perché prima di discutere “stadio sì stadio no” si sarebbe dovuto discutere dell’impatto di un manufatto che vale per il quartiere, per la città, per l’area metropolitana, persino per la regione e magari un po’ anche per l’Italia.
Mi sarebbe piaciuto che l’amministrazione cittadina, giocando d’anticipo, si fosse presentata con in mano un progetto dal Monte Stella a Baggio a Quarto Cagnino, prevedendo accessibilità pubblica, viabilità, inquinamento, nuove edificazioni, ristrutturazioni di vecchi edifici (varrebbe per tutti il cosiddetto quadrilatero di piazza Selinunte, realizzato tra la fine degli anni trenta e i quaranta, un ghetto per immigrati di ogni nazionalità), servizi, scuole, piscine, piazze, eccetera, relazioni sociali, opportunità economiche, persino la “bellezza”. Alla fine si sarebbe potuto concludere: sì, lì uno stadio ci sta; no, non ci sta. Qualcosa di alternativo e di preventivo rispetto ai facili rendering offerti alla stampa dalle società calcistiche, qualcosa che partisse dalla conoscenza e dal disegno (si potrebbe ripartire dal vecchio tavolo da disegno?), più che dalle luminose parole, gratificanti e consolatorie come libri dei sogni, che precedono ogni speculazione.
Sono parole ad esempio che ritroviamo a premessa del nostro Piano di governo del territorio: l’urbanistica d’oggi ci spiega che “Milano metropolitana è un sistema territoriale integrato, alimentato da una fitta rete di relazioni materiali e immateriali, che stabiliscono stretti nessi di interdipendenza e complementarietà tra i contesti urbani e territoriali che la compongono. Se ne disegnassimo la forma lo faremmo a partire dalla sua connettività. Ne emergerebbe una città compatta che si dilata verso nord e che si estende lungo i principali assi infrastrutturali. Una città che, con un insieme di comuni contigui, costituisce il centro allargato di una vasta regione urbana, fulcro di fenomeni di urbanizzazione differenziale e di regionalizzazione, in stretta relazione con altri contesti territoriali, ciascuno dotato di peculiari traiettorie evolutive, sempre meno catturabili entro i consolidati confini amministrativi…”.
Chi potrebbe contraddire un simile saggio di brillante e oscura comunicazione? Diciamo pure: un modello Milano di ovvietà, che non alludono neppure ad un possibile autentico modello Milano, che dovrebbe prima di tutto chiarirci “per chi” sarà Milano, per quale genere di società e quindi di collettività, di comunità. L’urbanistica per sua natura dovrebbe scegliere, non accatastare parole e grattacieli, riconoscendo che spazi costruiti o vuoti sono ricchezza di cui non può impossessarsi liberamente il mercato. Qualche regola (da rispettare) dopo l’epopea della deregulation e del neo liberismo ci vorrebbe anche per il mercato. Un “modello Milano” è pur sempre scelta di classe, anche se si racconta e la politica ci racconta che le classi non esistono più.
Oreste Pivetta
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