16 Settembre 2025

LA “GRANDE MILANO”, LA GRANDE INCOMPIUTA

Una storia ininterrotta


Credits Esmeralda Spitaleri (14)

Periodicamente quando si parla del futuro di Milano, ultimo l’on. Giorgio Gori, si invoca, si rimanda, si auspica, l’area metropolitana e la grande Milano che di volta in volta deve essere rilanciata, rinnovata, trasformata.

La storia è antica e le interpretazioni politicamente polivalenti: “La grande Milano non è solo una aspirazione. È una necessità. Governare Milano significa non perdere mai di vista la sua funzione nella vita nazionale […]. A Milano non si può concepire la ordinaria amministrazione.”.

Così scriveva sul Popolo d’Italia (La città condottiera, 13 agosto 1926) Arnaldo Mussolini insistendo su un progetto che stava molto a cuore al fratello che puntava a fare della città la vetrina del fascismo autonomo dalla burocratica e avversa Roma.

Mussolini aveva sempre avuto una idea chiara del rapporto tra la città di Milano e le istituzioni nazionali fin da quando fu lo spin doctor delle elezioni del 1914 che elessero il primo sindaco socialista: “se vi è città d’Italia che sia stata ostacolata e fastidiata nel suo sviluppo dalle istituzioni vigenti è precisamente Milano…la monarchia ha sempre detestato Milano” (assemblea della sezione socialista per il programma amministrativo, 26 maggio 1914).

Fare la grande Milano era stato l’obbiettivo di molti ma non tutti dei sindaci prefascisti e due i risultati ottenuti.

Il primo nel 1873 con l’aggregazione dei Corpi Santi, cioè tutta quella parte di città che si era sviluppata fuori dalle mura che costituiva un comune autonomo che circondava interamente la cerchia dei navigli (Regio Decreto 1413,) con una popolazione di 62976 abitanti (censimento 1871).

 La vicenda tra polemiche sui dazi, sulle competenze, sui costi e sulla rappresentanza in consiglio comunale si trascinò per un paio di decenni.

 Aggregazione avvenuta con l’opposizione dei Corpi Santi, la loro tesi era semplice con l’allargamento: “sarebbero aumentati i prezzi a danno dei più poveri e si sarebbero favoriti i ricchi milanesi” e questo va sottolineato è stata una costante della storia milanese: nessuno dei comuni coinvolti ha mai accettato con entusiasmo l’aggregazione alla città e neppure ha mai salutato con entusiasmo enti intermedi. 

Del resto, l’opinione del sindaco socialista per antonomasia Caldara era netta: le provincie sono “enti buoni solo per i manicomi e le strade” che avrebbero potuto essere sostituite da “consorzi e aziende consorziali”, mentre era favorevolissimo alla politica delle aggregazioni dei comuni: scelta “preferibile e più scientifica e più pratica di quella della rettifica dei confini”.

Più volte Caldara auspicò la grande Milano, nell’ambito di un radicale sostegno all’autonomia comunale, base del municipalismo socialista.

 Nel 1914 all’indomani della vittoria socialista, palazzo Marino insediò una commissione che studiasse l’allargamento, nel 1917 alcuni consiglieri socialisti, tra cui Paolo Pini chiesero al sindaco se non ritenga utile: “di provvedere subito alle necessarie annessioni e al conseguente decentramento amministrativo”, il consiglio comunale poi approva un ODG sull’allargamento presentato dal socialista Giovanni Fassina più noto per essere stato condannato alla fucilazione per la sua opposizione alla guerra.

Sul tema l’amministrazione socialista si era scontrata con il governo nazionale anche perché come scrisse nel 1918 il prefetto Filippo Olgiati “amministrativamente il risultato sarà un tal rafforzamento del partito socialista da far prevedere che difficilmente una amministrazione di altro colore politico all’infuori del socialista potrà insediarsi nel comune”. La preoccupazione delle conseguenze politiche delle aggregazioni è un’altra costante più che secolare della storia cittadina.

Quando Caldara fu sostituito dal massimalista Filippetti, il tema della grande Milano democratica scomparirà dai programmi socialisti per almeno trent’anni.

Mussolini che del consenso dei piccoli comuni se ne impippava totalmente decise il secondo allargamento. Così scrisse al sindaco Mangiagalli eletto da una maggioranza di cui parte fondamentale erano i fascisti: “ho la sensazione che Milano abbia il respiro della sua fatale espansione mozzato dalla fungaia di piccoli comunelli che sorgono alla sua periferia (Greco, Lambrate, Dergano, Turro Musocco, Affori, Chiaravalle etc.). Se VS crede di provocare un provvedimento di annessione che io stimo utile e forse (il dubitativo era solo di cortesia ndr) necessario, io sono disposto a farlo approvare. Qualche intesa dovrebbe intervenire coi sindaci dei comuni. Io credo che la cosa piacerebbe anche a loro o prima o dopo”.

 Mangiagalli però si preoccupava non tanto della forzante decisionista di Mussolini quanto dei danè. Scrisse infatti al duce: “sorge una grave difficoltà, quella finanziaria. Sono comuni in difficili Sono Comuni in difficili condizioni di bilancio che si uniscono a Milano per avere i vantaggi di una civiltà e coltura superiore, servizi igienici, servizio di estinzione di incendi, scuole, fognatura, piano regolatore, linee tramviarie” e come da tradizione anch’essa secolare bussò a quattrini: “È disposto il governo ad entrare in quest’ordine di idee? L’aggregazione pura e semplice dei Comuni a Milano, coll’obbligo morale che diverrebbe presto obbligo materiale di compiere opera di civiltà, senza alcun compenso da parte dello Stato, senza contributi dei comuni per le condizioni dei loro bilanci, non esporrebbe Milano ad un disastro finanziario?”. 

Accanto ai danè Mangiagalli si preoccupava della contaminazione politica in consiglio comunale dei nuovi arrivati che fu risolta d’imperio e con qualche bastonatura dei dubbiosi dal governo nazionale.

Il 9 settembre Mussolini, il decreto è di pochi giorni prima, convoca una riunione sull’aggregazione dei comuni in prefettura a Milano, nel suo intervento ricorda che “c’erano delle pratiche fin dal 1886 e 1888 ma queste pratiche andavano coprendosi di un rispettabile strato di polvere rimanendo negli archivi…Milano è la città che tutte le genti del nord che scendono verso il mediterraneo incontrano per prima…io voglio che la prima impressione sia di potenza, di lavoro, di equilibrio e di forza. Milano era soffocata nei suoi confini troppo stretti…i fascisti non vedono più il campanile ma la patria”. 

Dopo l’intervento del presidente del consiglio alcuni tra i sindaci volevano discutere dei problemi operativi ma Mangiagalli che molto prudentemente ipotizzerà qualche forma di decentramento ed uno schema che riprendeva l’organizzazione della Grande Londra, sciolse la riunione rinviando ad altri tempi, mai venuti.

La velocità della procedura è uno delle operazioni marketing del duce: “mentre gli altri chiacchierano io faccio” come fa rimarcare alle agenzie di stampa ovviamente evitava di parlare della questione dei dazi che si prolungherà fino al 1930.

L’estraneità e l’impreparazione del comune all’allargamento di fronte alla rapidità delle scelte mussoliniane è dimostrata dal fatto che la giunta non sa neppure se il decreto è immediatamente attuativo o se vi sono altri passi da compiere vieppiù gli assessori chiedono al prefetto se devono approvare un bilancio unico o devono approvare 12 bilanci diversi.

Il 15 dicembre 1923 il consiglio comunale prende atto dell’allargamento, pochi giorni dopo vengono aggregati anche il Ronchetto e il Lorenteggio sottratti ai comuni di Corsico e Buccinasco.

 Il giorno di Natale Mussolini è a Milano per l’inaugurazione della nuova sede del Popolo d’Italia e coglie l’occasione per segnalare le decisioni assunte a sostegno della città, il 28 tutto l’iter è terminato: Milano raggiunge la dimensione territoriale che ha ancora oggi.

La superficie comunale dei comuni aggregati è di 105,76 kmq cioè del 41% maggiore della superficie comunale precedente che era di 75,85 kmq, mentre gli abitanti aggiunti erano poco più di 120000.

Al netto delle procedure amministrative ben descritte in un saggio di Elisabetta Colombo da cui sono tratte le citazioni, dubbi economici e burocratici furono risolti dallo scioglimento del comune e dall’arrivo del commissario e poi podestà Ernesto Belloni nel 1926, un megalomane entusiasta della “Grande Milano” (grande diventa maiuscolo): “per la ferma volontà di Benito Mussolini e per virtù propria di lavoro, di sacrificio e di intelletto, Milano sarà degna del posto che le spetta alla testa delle città consorelle sotto la guida ferma e sicura del Fascismo primigenio”.

Belloni aveva come obbiettivo dichiarato un comune di 2000000 di abitanti rispetto agli 851000 ad aggregazione avvenuta, come scrisse Il Popolo d’Italia: “A Milano …. ci vuole un amministratore in pieno possesso della facoltà di deliberare…senza organi dilatori e diluitori ma con vigorosi attributi…”.

Invece proprio il podestà fascista con gli attributi sarà tra i motivatori dell’abbandono della strategia della “Grande Milano” a favore dell’arcinemica Roma.

Belloni non solo triplicò il deficit del comune ma fu coinvolto nella guerra per bande del fascismo milanese in primis con Farinacci lambendo nelle polemiche anche la longa manus del duce: il fratello Arnaldo.

Accusato insieme al federale Giampaoli di ogni nefandezza, in particolare di aver promosso una serie di faraonici interventi (lo Stadio di San Siro il podestà era stato allenatore del Milan, l’Idroscalo, il Planetario, il Palazzo di Giustizia, il Palazzo della Borsa, la convenzione tra il Comune  e lo Stato che prevedeva la cessione al Comune delle vecchie caserme , la copertura dei navigli ), ipotizzato sventramenti (ad esempio per aprire piazza Meda)  e grattacieli anche in piazza Duomo allo scopo di percepire tangenti e prebende, fu sostituito, espulso dal partito e condannato a cinque anni di confino. 

Stessa sorte per Giampaoli.

 Ad adiuvandum i due furono accusati anche di sfruttamento della prostituzione, prestiti ad usura, gestione di bische, pizzo ai commercianti; insieme misero le mani sulla nettezza urbana, prima gestita da una cooperativa di lavoratori, creando un ente denominato “Consorzio fascista spazzini privati”. La qualità del servizio peggiorò in modo tale e le ruberie furono così massicce, che il Consorzio fu commissariato in meno di quattro mesi ed un’inchiesta stabilì “l’impossibilità di uno svolgimento del servizio che rispondesse almeno alle più elementari condizioni tecniche e igieniche”. 

Giampaoli fu anche sospettato di essere coinvolto con la bomba alla fiera Campionaria del 12 aprile 1928, uno dei grandi misteri irrisolti della storia fascista, che fece 20 morti.

Il nuovo podestà, settembre 1928, Giuseppe de Capitani d’Arzago, un conservatore reazionario amico di vecchia data del duce avrà il compito di normalizzare la situazione e archiviare il progetto “Grande Milano” (a partire dalla riduzione del deficit), sostituito progressivamente nelle priorità del duce dalla “Terza Roma” un tempo indicata come “città parassitaria di affittacamere, di lustrascarpe, di prostitute, di preti, di burocrati. Roma, città senza proletariato degno di questo nome, non è il centro della vita politica nazionale” e diventata invece come è scritto sul Palazzo degli Uffici dell’EUR: “La Terza Roma si dilaterà sopra altri Colli lungo le rive del Fiume Sacro sino alle sponde del Tirreno”.

Insomma, della grande Milano (tornata minuscola) non si parlò più.

Da epitaffio delle aggregazioni storiche sulla “Grande Milano” vale la pena ricordare un intervento di  Aniasi, trent’anni dopo: “per ognuna di queste aggregazioni avveniva la distruzione di un tessuto culturale, di una comunità…le annessioni hanno fatto il loro tempo e hanno mostrato di essere dannose…i confini amministrativi non hanno molto senso…bisogna organizzare un area metropolitana alla quale tutti partecipano con uguali diritti su un piano di parità…la perdita della autonomia comunale dei comuni aggregati è stata la manifestazione autoritaria e antidemocratica di uno stato accentrato e accentratore”; a questa impostazione Aniasi fa risalire il problema delle periferie che definisce “serbatoio di uomini al servizio della città ma estranei alla sua vita”.

Nel dopoguerra, il tema della grande Milano nella sua interpretazione democratica ha attraversato i decenni almeno dal decreto del ministro Togni che nel 1959 istituiva il Piano Intercomunale per l’area milanese.

Ma mentre l’evidenziazione dei problemi era chiara, così ancora Aniasi alla 29° assemblea del piano Intercomunale Milanese in una relazione dal titolo “grande Milano” (grande stabilmente in minuscolo) dove aveva indicato la nuova prospettiva: “l’attuazione della programmazione nazionale e regionale e le dimensioni che i problemi fondamentali delle nostre città hanno assunto ci pongono chiaramente davanti alla necessità di affrontare scadenze operative non più rimandabili: gli strumenti devono essere dimensionati alla nostra comunità che supera i 90 comuni e i tre milioni di abitanti perché i problemi sono appunto quelli di questa intera area e non già di questo o di quel comune”, la sua realizzazione sempre rinviata.

Per più di trent’anni la nascita della grande Milano verrà sempre annunciata, possiamo citare a mo’ di esempio il corriere nell’82 Tognoli sindaco che scrive, “il tema della grande Milano e più in generale delle “aree metropolitane è entrato nella fase delle proposte concrete”, tesi ribadita tre anni dopo parlando del programma regionale del 1985 “nasce la grande Milano, metropoli o super comune?”  ma resterà sulla carta.

Innumerevoli i convegni, le ricerche, gli studi, gli appelli, gli auspici, le dichiarazioni, solo di titoli potremmo riempire diverse pagine, ma nulla di concreto fino al risultato finale della riforma Del Rio Legge 7 aprile 2014, n. 56 , così riassunta su queste pagine da Valentino Ballabio: “una città metropolitana di cartapesta, emulo della ex-provincia smembrata e debilitata, con a capo un sindaco aggiunto… Ovvero il paravento fittizio di un capoluogo accentratore, concorrente e connivente con l’altro mostro istituzionale divenuto bulimico: la regione.”

L’unica grande Milano che funziona davvero e bene, da 25 anni è l’associazione che ne porta il nome.

Walter Marossi



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  1. valentino ballabioGrazie per la citazione. Aggiungerei che la vigente legge Delrio era propedeutica alla riforma costituzionale Renzi, e pertanto risulta un relitto sopravvissuto al naufragio del 2016. Quindi l'attuale assetto istituzionale-amministrativo locale si regge su un spezzone di riforma posticcio e sconclusionato che tuttavia, nell'ultimo decennio e ancora tuttora, non pare aver trovato alcuno - in campo politico e non solo - che se ne preoccupi e se ne occupi !
    17 Settembre 2025 • 11:45Rispondi
  2. Targetti UgoCaro Marossi, anche questo come gli altri articoli di storia politica di Milano è astato per me di grande interesse. Se permetti vorrei aggiungere alcune note per l’ultimo periodo. La vicenda della “grande (con la minuscola) Milano” anche nel dopoguerra è stata sempre presente nel dibattito politico, questione conflittuale e irrisolta, anche con la costituzione dell’attuale Città Metropolitana. Alla fine degli anni ’50 Milano aveva chiesto al Ministero di dotarsi di un PRG esteso ai comuni dell’hinterland (35 i comuni interessati) prerogativa che la legge “fascista” del 1942 (tuttora vigente seppur modificata) riservava ai capoluoghi. La “ribellione” dei comuni indusse Milano a ritirare la proposta e fu costituto il Piano intercomunale milanese PIM (1961) che però non era un’ istituzione ma un’associazione di comuni le cui decisioni non erano formalmente vincolanti. Fu istituito però il consorzio del CIMEP per l’edilizia economica e popolare (1969), istituzione formalmente sovraordinata ai singoli comuni, seppur settoriale. Negli anni ’70 iniziò anche la formazione dei parchi regionali gestiti da consorzi di comuni, ma con poteri sovraordinati al singolo comune. I Parchi ora coprono una quota rilevante del territorio della grande Milano. Sempre negli anni ’70 la Regione istituisce i Comprensori (legge 52 del 1975), ente di secondo grado (eletto dai comuni) con compiti di pianificazione e programmazione. Il Comprensorio dell’area milanese aveva un’assemblea di circa 600 membri. Dopo pochi anni la legge fu abrogata. Negli anni ’90 (legge 142 del 1990) il legislatore propose due soluzioni per il governo delle aree conurbate: rafforzare le provincie, a partire dalle competenze nel governo del territorio e istituire, con leggi regionali, le città metropolitane (12 in Italia). Tra il 1995 e il 1999, la Provincia di Milano tentò di attuare la legge. Il comune di Milano (sindaci Formentini e Albertini con assessore Lupi particolarmente ostile) e alcuni grandi comuni, anche di centro sinistra, si opposero alla Provincia. Il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale fu approvato da l Consiglio provinciale, ma non dalla Regione che non approvò neppure la legge per l’istituzione della città metropolitana. Il dibattito politico e disciplinare su quale fosse la dimensione dell’area metropolitana, se di scala intercomunale, provinciale o regionale o addirittura interregionale, non aiutò certo la soluzione istituzionale della “grande Milano”. Oggi abbiamo la Città metropolitana di Milano istituita con legge 56 del 2014, più piccola della soppressa Provincia di Milano smembrata con l’ istituzione della Provincia di Monza. Rimando ai chiarissimi ed esaurienti articoli di Valentino Ballabio su ArcipelagoMilano per capire perché la Città metropolitana così come è stata concepita e come è gestita, non è in grado di affrontare gli aspetti strutturali del governo metropolitano. Non ho ricostruito le posizioni delle diverse forze politiche, compito che lascerei volentieri a Walter Marossi.
    18 Settembre 2025 • 23:08Rispondi
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