2 Settembre 2025

PALAZZO MARINO E LE DISAVVENTURE DELL’URBANISTICA MILANESE

Eravamo a cavallo del ‘900. Basta cambiare i nomi e siamo ad oggi


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Le recenti vicende urbanistico edilizie di Milano hanno fatto gridare molti: “non era così nei bei tempi andati” e molti si sono scoperti oraziani “Laudator temporis acti”, ma non è proprio così.

Il primo sindaco di Milano si dimise/fu dimesso per una questione “edilizia” e anche il secondo, e al terzo e al quarto non andò molto meglio.

Il primo sindaco dal gennaio 1860 al luglio 1867 è Antonio Beretta (1808-1891), un ricco borghese, fervente patriota risorgimentale.

L’intervento principale della sua sindacatura in materia di urbanistica fu la decisione di sistemare Piazza del Duomo aprendo una via da intitolare a Vittorio Emanuele dal Duomo alla Scala; nel 1863 dopo molte discussioni, diversi concorsi e la presentazione di 170 progetti, si optò per una galleria.

In Consiglio comunale il dibattito fu acceso, il conte Pietro Gavazzi, riteneva troppo costoso il progetto, Paolo Mantegazza, si opponeva per ragioni di igiene, Carlo Tenca stigmatizzò gli “abbellimenti” e le “luminarie” invitando gli amministratori a pensare a “educare le nuove generazioni” mentre il ministro Gabrio Casati scriveva che “rifiutare i portici è retrogradume”.

La giunta tagliò corto, al tempo si era piuttosto decisionisti: “Portate le questioni a una certa maturanza, e questa lo è, l’Amministrazione comunale deve troncare le discussioni astratte e operare. L’affidarsi a un uomo di conosciuto ingegno, accordagli le necessarie facoltà, non chiedergli miracoli, questa è la via per giungere al fine”.

I lavori, affidati ad una società finanziaria inglese The City of Milan Improvements Company Limited, al tempo Milano attraeva molti capitali dall’estero ma taluni sospettarono che gli inglesi fossero solo prestanome di italianissimi e milanesissimi investitori, vennero grossomodo completati in meno di tre anni ma ce ne vollero altri dieci per completarli: mancava tra l’altro l’arco trionfale d’ingresso. Nel 1869 va in dissesto la società appaltatrice che si sarebbe dovuta finanziare con gli affitti e il comune rileva la Galleria per la cifra di 7,3 milioni di lire dell’epoca.

Proprio la Galleria fu all’origine della disfatta del sindaco Beretta.
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Per allargare la piazza del Duomo e per costruire la galleria, il Comune aveva dovuto infatti acquistare case intorno e per fare ciò, l’assessore G. B. Marzorati cognato del sindaco aveva speso ventun milioni.

Ma come notò La Gazzetta di Milano diretta da Raffaele Sonzogno tra le case acquistate ve ne erano due di proprietà dell’assessore che si era fatto pagare dal comune diversamente da tutti gli altri venditori, subito, “in buoni denari sonanti d’oro o d’argento”, e non in cartelle di rendita; era poi opinione diffusa che chi conosceva i dettagli delle previste requisizioni comunali avesse fatto incetta di edifici.

La polemica divampa e si avvia una inchiesta. Nasce uno schieramento di opposizione capeggiato tra l’altro dai giornali, Il Secolo, La Frusta, Il Gazzettino, che al tempo erano vere e proprie organizzazioni politiche. Sui muri compare un primo manifesto politico. “Abbasso il municipio! Abbasso la giunta!”  

Il consigliere comunale Giuseppe Pestagalli scoprì inoltre che le misure della costruzione erano maggiori del preventivato, in pratica c’era un piano in più, ne chiese ragione all’assessore ed ingegnere Cagnoni che spiegò senza falsi pudori che la modifica, tenuta segreta per non riaprire la questione, si era resa necessaria per rendere più remunerativo l’investimento privato. 

Il Pestagalli che era architetto e aveva partecipato con un suo progetto al concorso sfiorando l’incarico, al tempo non si era molto rigorosi in materia di conflitto di interessi, lasciò circolare la notizia che il motivo andava invece cercato nell’esigenza di utilizzare l’acciaio in eccesso che “qualcuno” aveva “erroneamente” accantonato.

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In questo clima di sospetti e boatos alle elezioni parziali (si rinnovava solo una parte del consiglio comunale) il Marzorati fu ricandidato ma trombato e con lui non saranno rieletti molti altri sostenitori del sindaco uscente obbligando il sindaco alle dimissioni il 17 luglio 1867. Beretta con il cognato caparbiamente si ripresentò alle elezioni comunali generali pochi mesi dopo ma fu sconfitto.

Beretta cercò nel rendiconto di congedo di salvare almeno l’onore. In particolare si soffermò sulle scelte urbanistiche: “Abbiamo provveduto ad aprire nei quartieri per lo innanzi meno frequentati ma dalla prossima era alla stazione ferroviaria destinati a naturale e rapido incremento, novelle vie che già pigliarono importanza di arterie vitali e videro sorgere sui loro fianchi, testimonianza non dubbia delle opportunità, edifici privati … Scomparse in gran parte le insalubri e luridi cave che li deturpano, acquistate tutte le altre, ad eccezione di pochissime … E quasi pegno di tanta mole futura già sorge mirabilmente compiuta in poco più di due anni la grandiosa Galleria Vittorio Emanuele, monumento di gratitudine votato fin dai primi giorni della italiana redenzione al re liberatore, tale, non ci peritiamo dall’affermarlo, per vastità di dimensione e per copia e splendore di ornato, di non temere confronti in Europa”. 

In verità non era mancato l’impegno sociale della giunta grazie al suo assessore Tullo Massarani (consigliere provinciale per ventotto anni, consigliere comunale per oltre 30, assessore, deputato, senatore, il primo Senatore ebreo nel Regno d’Italia) che riuscì a far approvare dal consiglio comunale la cessione alla “Società edificatrice di case per gli operai, bagni e lavatoi pubblici di un’area di circa ottomila metri quadrati …  dove vennero costruiti asili, bagni, lavatoi, cucine, due grandi caseggiati e 66 casette monofamiliari destinate agli operai perché il riordinamento dei quartieri più popolosi e tutte senz’altro le riforme edili sottraggono ai meno agiati e ai poveri le loro abituali dimore, ne possono supplirvi le costruzioni che risorgono sotto il martello demolitore foggiate la massima parte secondo richieste di un tenore di vita più dispendioso”, al tempo vi era il problema che gli affitti erano troppo alti per i lavoratori. 

Sui “favoritismi” vi fu una querela con processo e un’inchiesta che non portarono a nulla: non c’erano reati solo dicerie, anzi nel 1871 il senatore Beretta che restava pur sempre consigliere comunale venne fatto conte motu proprio, da SM il Re e fu anche presidente del Museo patrio d’archeologia di Milano e presidente dell’Associazione industriale italiana sotto la cui egida istituì’ nel 1882 la Scuola superiore d’Arte applicata all’Industria del Castello Sforzesco di Milano, infine si trasferì a Roma, svolgendo mansioni di segretario della presidenza del senato, dove morì, “il largo censo stremato”, cioè in miseria.

Non mancò il “giallo”: l’architetto della galleria Giuseppe Mengoni, criticatissimo per i ritardi e per i costi, si suicidò il 30 dicembre 1877 a poche ore dall’inaugurazione. Ufficiosamente si accreditò l’idea prima di un incidente poi “di una questione di donne e debiti”, anche se non mancarono i complottisti che dissero che era stato suicidato perché sapeva troppo, così come non mancano oggi on line chi ritiene che la galleria sia un luogo esoterico e l’ottagono un simbolo templare con conseguente immancabile mistero. Si favoleggiò anche sulla mancata presenza di Vittorio Emanuele II all’inaugurazione in realtà dovuta al fatto che il monarca era morente.

 Altro giallo fu il suicidio del rappresentante della società inglese appaltatrice.

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Il nuovo sindaco è Giulio Bellinzaghi banchiere che aveva iniziato come commesso, rimasto in carica per il tempo più lungo nella storia della città, quasi diciannove anni di cui sedici consecutivi dal 1868 al 1884 e poi nuovamente dal 21 novembre 1889 al 28 agosto 1892, data della morte.

Primo obiettivo della sua giunta non a caso detta “di riparazione” la riduzione del deficit principalmente attraverso la vendita di aree edificabili obbiettivo raggiunto nel giro di pochi anni.

Tra gli anni settanta e gli ottanta la città cresceva grazie ai privati, senza attendere deliberazioni o piani del Comune. Particolarmente importante fu la speculazione nell’area dell’ex-Lazzaretto straordinaria opera sforzesca, ma ogni tentativo di salvarla almeno in parte fu vano, venduto dagli istituti ospedalieri alla Banca del Credito italiano dove verrà costruito un numero di edifici pari al 20% di quelli esistenti a Milano nel 1881. 

 L’area era divenuta importante anche per lo sviluppo della ferrovia, inoltre, valorizzava le adiacenti aree casualmente di proprietà dei Pirelli. Stiamo parlando di una Milano che aumentava tra il 1861 e 1881 di 170000 abitanti.

lazzaretto operai demolizione impresarioIl Consiglio Comunale di Milano approvò all’unanimità il progetto per il nuovo quartiere al Lazzaretto il 2 gennaio 1882, scrive Giulia Franceschet: “ In questa occasione fu evidente come il Comune si sottomettesse al volere e agli interessi dei privati, senza opporre alcuna resistenza: per esempio alla richiesta di alcuni Consiglieri di cercare di porre dei vincoli soprattutto riguardo all’altezza degli edifici, l’Assessore Cusani rispose: … di fronte a una Società, che vuol cavare dalla sua proprietà il massimo profitto, non si sarebbe potuto insistere in quel senso, se non a patto di sottostare a sacrifici non lievi.” 

Numerosi consiglieri, ignari precursori della decrescita felice, anche della maggioranza, temevano senza nasconderlo, uno sviluppo selvaggio che avrebbe leso per sempre il volto estetico di Milano. 

Così ad esempio Gerolamo Sala, consigliere comunale per vent’anni, moderato conservatore: “Milano, città cospicua e priva affatto di dintorni che offrano qualsiasi amenità, è per nulla curante, non già di moltiplicare i pubblici passeggi, ma nemmeno di conservare i pochissimi e brevissimi di cui è dotato, quel tanto di bellezza che pur avevano. Milano non ha che la cerchia antica dei bastioni ed un bellissimo, ma piccolo e racchiuso pubblico giardino. Orbene, col Cimitero si ingombra la parte più amena del nostro Comune e si rattrista la parte più frequentata e gradita. […] Io penso sempre al rimorso artistico che debbono prove coloro che, avendolo potuto, non hanno impedito un deturpamento cittadino, quale quello de’nostri bastioni e quale l’altro dei nuovi edifici che si lasciano sorgere addossati all’Arco della Pace”.

Sala alludeva agli interventi sull’area che da Foro Bonaparte andava all’Arco della Pace e che comprendeva la piazza d’Armi e il Castello, proprietà della difesa, circa 500000 metri quadri.

A capo dell’operazione stava la Società Fondiaria milanese ma fondata a Roma, guidata da Antonio Allievi politico di vecchia data già segretario di Cavour, già direttore de la Perseveranza”, cioè il più autorevole giornale dei moderati milanesi pubblicato fino al 1922, direttore della Banca Generale di Roma, deputato e poi senatore ma soprattutto sostenitore del sindaco; travolto dagli scandali bancari di fine secolo  morirà povero ma onorato come fu ricordato  nella sua commemorazione al Senato.

Il progetto di Allievi si prefiggeva di costruire “una città nuova” per la precisione si parlava di una “Nuova Milano” e gli accordi preliminari erano stati definiti direttamente con i ministeri romani (la proprietà era un intreccio tra demaniale e comunale), senza coinvolgere l’amministrazione locale o, meglio, il consiglio comunale che pure avrebbe dovuto intervenire economicamente, che venne informato solo parzialmente e con notevole ritardo.

La convenzione prevedeva di costruire quartieri signorili con giardini, assieme a una lunga strada che collegasse l’Arco della Pace al Duomo passando per il Castello che doveva essere demolito al 90%. 

Proprio la demolizione del castello provocò la reazione, con un impegno che era mancato nel caso dell’ex Lazzaretto, di un gruppo di consiglieri, della Società storica Lombarda e di alcuni di quelli che oggi chiameremmo comitati cittadini capeggiati da Luca Beltrami, accusati di bigottismo archeologico che ottennero dal governo nazionale un vincolo obbligando i fautori del progetto a rivedere il tutto.

Giulio Prinetti consigliere comunale che sarà poi ministro dei lavori pubblici e degli esteri così descrive la situazione: “l’incremento edilizio è così rapido e affastellato che se non è diretto con acume ed energia esporrà il comune dio sa a quali spese in avvenire, quando sarà necessario demolire ciò che ora si lascia fare sconsideratamente” concludendo con una frase spesso ripetuta nel secolo successivo: “ manca un principio direttivo della giunta, manca un adeguato concetto dell’avvenire riservato a Milano.”

Il futuro sindaco Mussi di parte radicale intervenendo in consiglio fu pesante alludendo ad interessi privati in atti di ufficio, sostenendo che “il nostro sindaco e i nostri assessori fanno bene gli affari a casa loro, ma male gli affari del Comune”; tra le accuse anche quella di aver volutamente sovrastimato l’esigenza di alloggi signorili andando a scapito dei piccoli proprietari che vedevano svalutate le loro proprietà. Molti consiglieri della maggioranza accusarono la giunta di aver fatto “di iniziativa sua senza averne ricevuto alcun incarico”.

 Bellinzaghi offeso minacciò le dimissioni forse convinto che il tutto si sarebbe chiuso con qualche scusa, ma così non fu e il consiglio votò a maggioranza un odg per una commissione di approfondimento, in pratica un avviso di sfiducia.

Dopo qualche tentennamento il 18 aprile 1884 Bellinzaghi si dimette formalmente e il 25 viene eletto il nuovo sindaco, il progetto urbanistico era arrivato in aula il 15 aprile. 

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Quali fossero gli interessi privati non si discusse mai in consiglio, ne scriverà Francesco Saverio Merlino che nel 1890 dà alle stampe a Parigi un pamphlet di “controstoria”: L’Italie telle qu’elle est che non ha grande fortuna in Italia: sarà infatti tradotta e pubblicata la prima volta molti decenni più tardi. Merlino afferma, nel capitolo la Greppia che Bellinzaghi aveva investito direttamente milioni nella speculazione e che le dimissioni erano state una finta perché restava l’eminenza grigia della città.

Tuttavia, nessuna inchiesta lo coinvolse, nessuna prova fu portata, al tempo i processi si svolgevano più sui giornali che nelle aule di tribunale, tant’è che Bellinzaghi tornò a fare il sindaco per tre anni, morì in carica e come Beretta fu fatto conte e senatore oltre che cavaliere, commendatore e grand’ufficiale di svariati ordini.

Dopo Bellinzaghi la sindacatura tocca a Gaetano Negri, un duro e secondo la Treccani “il massimo esponente della consorteria moderata milanese”. Per consorteria si intendeva quel blocco moderato di nobili e proprietari terrieri che con cooptazioni e maneggi elettorali, resse il Municipio dall’Unità al 1899, scontrandosi spesso con la nascente borghesia industriale.

Negri aveva tra i punti qualificanti del suo programma proprio in ragione degli incidenti di percorso del suo predecessore, l’elaborazione del piano regolatore e la sistemazione del mega progetto “Nuova Milano” che sia pur ridotto e dopo polemiche e varianti fu deliberato a scapito soprattutto delle aree verdi. Al tempo nel duello tra un’area verde e un’area edificabile come nel caso di Clint Eastwood e Gian Maria Volontè (Per un pugno di collari) vinceva sempre l’area edificabile anche se bisognava non eccedere nell’immettere sul mercato un eccesso di aree che si sarebbero fatta concorrenza.

Bellinzaghi che non digerì mai la sostituzione e a proposito delle scelte urbanistiche di Negri attorno al Castello disse: “A mi me l’han daa nel goeubb perché sera el sindich bancher: al sindich filosf adess gh’el tegnen bon! asi che se no lì è zuppa l’è pan bagnaa”.

Il piano regolatore venne ufficialmente presentato da Pirelli (consigliere comunale per anni, proprietario di molte aree) l’8 gennaio del 1886 e approvato poco dopo.

 Il piano, spiegava, era stato studiato guardando a quello di Berlino per un contesto che prevedeva un ingrandimento di Milano fino a 500.000 abitanti. Il Piano accettava le proposte per le costruzioni attorno all’Arco della Pace (per la precisione il Pirelli diceva: “doversi accettare”), di costruire una rete stradale che collegasse il Circondario esterno. 

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Per il centro cittadino, si decise di allargare le vie esistenti, rinunciando ad avere “dei corsi lunghi e rettilinei”, perché “una città antica, formatasi per gradi, senza un concetto unico” difficilmente si poteva trasformare “in una città geometricamente simmetrica” mentre “anche una città a vie tortuose e a case dissimili possa presentare altrettanta e anche maggiore genialità, e certamente maggior varietà prospettica, quando le strade siano sistemate e mantenute, le case ben fabbricate, ben restaurate e sempre pulite, i quadri poveri bonificati, i servizi pubblici ben regolati”. Con pochi rimpianti il Piano prevedeva anche l’abbattimento dei bastioni, al tempo demolire era quasi un imperativo etico. 

Per Mussi “la creazione di nuovi quartieri in Piazza d’Armi ed al Foro Bonaparte potrà riuscire utilissima, ma non ha carattere di necessità; mentre fra le questioni che la Giunta ha proposto, ve ne sono di quelle, quali la fognatura, i cimiteri, l’ospedale, il naviglio che presentano carattere di vera urgenza”.

Compilato prevalentemente dall’ingegnere comunale Cesare Beruto, il piano fu inizialmente respinto dal Consiglio superiore dei lavori pubblici; modificato fu sottoposto all’approvazione del Consiglio comunale e approvato dal ministero nel luglio 1889, ormai alla fine della sindacatura di Negri cui successe di nuovo Bellinzaghi e poi dopo la sua morte, nel settembre 1892 Giuseppe Vigoni che era stato non a caso assessore all’edilizia. Tutto in assoluta continuità. 

Uno dei problemi maggiori per il comune era “la ritardata esecuzione di alcune importanti convenzioni (al tempo usava molto la convenzione pubblico privato ndr): sobborgo di pta Romana (Banca Lomellina ditta Vonwiller), quartiere Monforte (Cassa sovvenzioni ai costruttori), stazione centrale (Compagnia fondiaria italiana), ippodromo San Siro etc

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Vigoni di suo ci mise una profonda opposizione al “disastroso ingrandire” della città: “l’enorme aumento della popolazione non è dovuto alla vera potenzialità di Milano, ma è il portato della tradizione o, meglio, del pregiudizio che a Milano sono inesauribili la ricchezza e la carità e che questo è il capannone sotto cui possono trovare ricovero e protezione. Per quanto ad alcuni possano parere dure queste parole dette da questo posto io non esito a pronunciarle perché abituato alla verità e persuaso che, se esse potessero trovare eco fuori dai confini della nostra città io avrei reso un grande servizio all’agricoltura lombarda, che il pregiudizio spoglia di braccia utili e alle finanze e al decoro del Comune, che l’invasione annua profondamente offende”, tradotto in un più banale se non siete abbienti non vi vogliamo.

Ne Negri ne Vigoni entrambi peraltro fatti senatori, trassero grande giovamento politico dal “Nuova Milano”, il primo non tornò a fare il sindaco perché ritenuto troppo rigido anche dai suoi ed entrambi non saranno rieletti, anzi si può tranquillamente affermare come scrive il Secolo che dopo le elezioni del dicembre 1899 quando gli elettori premiarono l’alleanza radical-repubblican-socialista capeggiata dai fautori di una città “industriale” ed elessero sindaco il radicale Giuseppe Mussi: “Milano è libera finalmente dalla consorteria che l’aveva finora tenuta oppressa”, consorteria che era strettamente intrecciata con gli sviluppi urbanistici della città.

In sostanza come scrive Vercelloni: “diritto di proprietà e diritto di edificazione, speculazioni sulle aree edificabili e conseguenti speculazioni edilizie, rapporti inquietanti fra potere pubblico e potere economico connotarono nei trent’anni successivi all’unità la vita politica e amministrativa milanese”.

Insomma, forse l’urbanistica milanese non era così bella nei tempi andati e forse occuparsene da Palazzo Marino portava pure un po’ jella,

Walter Marossi



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  1. Targetti UgoGrazie a Walter Marossi per questa interessantissima pagina di storia urbanistica e amministrativa di Milano. La rendita urbana ha sempre pesantemente condizionato lo sviluppo della città
    4 Settembre 2025 • 10:59Rispondi
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