8 Luglio 2025
DESTINO CINICO E BARO
I destini dei socialdemocratici a Milano

Giancarlo Giannini, o meglio, Gennarino Carunchio nel film di Lina Wertmuller Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto del 1974 quando insulta Mariangela Melato o meglio Raffaella Pavone Lanzetti ricca borghese milanese, tra i molti epiteti di cui la gratifica tra cui sgualdrina, fitusa, maiala, sciacquetta, zoccola etc. raggiunge l’apice gridando “buttana socialdemocratica”, dove il massimo disprezzo non è per la buttana ma per la socialdemocratica.
Socialdemocratico e socialdemocrazia erano termini offensivi per gran parte dei socialisti che imputavano il progressivo arretramento del peso elettorale del PSI al tradimento di Saragat e alla scissione di Palazzo Barberini del gennaio 1947 più che alla politica frontista e filorussa di Nenni e Morandi.
Ma soprattutto erano termini aborriti dai comunisti, Enrico Berlinguer aveva dichiarato in direzione, polemizzando con i miglioristi: “Io ho capito molto bene che c’è qui una parte di voi che vuole trasformare il Pci in un partito socialdemocratico. Sappiate che io a questa cosa non ci sto e che io non sarò mai il segretario di un tale partito. Se voi volete fare una cosa del genere lo farete senza di me e contro di me”.
Oggi non è più così ed è tutta una gara da parte di svariati soggetti politici a dichiararsi riformisti che più riformisti non si può; tuttavia, il termine socialdemocratico resta un tabù e dalla damnatio memoriae si è passati alla rimozione. Questo è avvenuto e avviene anche nella storia milanese e di palazzo Marino, dove i socialdemocratici sono stati protagonisti per un ventennio, basti ricordare i sindaci che in tempi e modi diversi passarono per il saragattismo: Greppi, Ferrari, Cassinis, Bucalossi, Aniasi, Pillitteri, in pratica il solo Tognoli nella prima repubblica non fu mai socialdemocratico almeno per qualche tempo.

Quando il 7 aprile 1946 si tengono le prime elezioni comunali concorrono sei liste: PSIUP, DC, PCI, Lista Madonnina (liberali, demo laburisti, destre, bossiani ante litteram), Alleanza repubblicana, Partito degli esercenti; socialisti e comunisti pur presentandosi in liste separate firmarono un programma comune.
Lo PSIUP (sigla con la quale si presentarono gli eredi del PSI) ottenne il 36,2% dei suffragi ma poco dopo con la scissione di palazzo Barberini ben 18 dei consiglieri comunali sui 29 eletti passarono con Saragat al PSLI ( venivano chiamato dispregiativamente piselli) e tra questi gli eredi più coerenti del riformismo turatiano: Antonio Greppi, Maria Caldara (la figlia del sindaco del 1914), Ludovico D’Aragona segretario della CGIL dal 1918 al 1925 e nel dopoguerra più volte ministro, Guido Mondolfo, Roberto Tremelloni, Virginio Ferrari, Lamberto Jori, Carlo Casati, Giovanni Balestri, Duilio Benedetti, Camillo Biserni (già consigliere dal 1914 al 1922), Umberto Bongiovanni, Gino Boriosi (assessore all’istruzione nelle giunte Caldara e Filippetti, presidiò Palazzo Marino durante l’assalto dei fascisti) , Ambrogio Broggi, Alessandro de Vecchi, Enrico Giani.
Mentre alle politiche del 18 aprile 1948 Unità Socialista (la lista “socialdemocratica”) nel collegio milanese elesse 7 deputati e 6 senatori tra questi Saragat, Ivan Matteo Lombardo, Ezio Vigorelli, Roberto Tremelloni, Paolo Treves, Ugo guido Mondolfo, Cornelio Fietta (sindaco di Pavia), Enrico Gonzales tra gli altri.

Nel febbraio del 1949 dopo una serie di polemiche attorno agli scioperi dei lavoratori del privato cui aderiscono i dipendenti comunali e all’atteggiamento della giunta, si apre una crisi che si concluderà solo due mesi dopo con la conferma di Greppi come sindaco a capo di una giunta con i socialdemocratici e i repubblicani ma senza socialisti e comunisti. Inizia la fase del centrismo milanese caratterizzata però da una forte presenza socialdemocratica e da una guida improntata al socialismo riformista. Lo specifico delle amministrazioni milanesi forse sta tutto qui: in una naturale vena turatiana.
L’insediamento elettorale dei socialdemocratici (con la sigla PSULI) fu confermato in Milano alle elezioni amministrative del 1951 quando ottennero il 14,57% schierandosi nella coalizione con DC, PLI e PRI (il sistema elettorale che prevedeva l’apparentamento delle liste e il premio di maggioranza), superando il PSI e risultando terzi nelle preferenze dei milanesi (DC 30,57%, PCI 22,65%).
In quegli anni alle politiche i saragattiani milanesi elessero personaggi autorevolmente rappresentativi del riformismo milanese: Paolo Treves, Ezio Vigorelli, Roberto Tremelloni https://www.arcipelagomilano.org/archives/55110, Pietro Bucalossi https://www.arcipelagomilano.org/archives/56947, Enrico Gonzales https://www.arcipelagomilano.org/archives/52570, Emilio Canevari, Edgardo Lami Starnuti, Italo Viglianesi, Corrado Bonfantini (il comandante delle Brigate Matteotti). Diversi socialdemocratici milanesi furono ministri.

Alle amministrative del maggio 1956 mantennero l’11,56%, nel novembre 1960 (con in lista ben tre sindaci Ferrari, Cassinis, Bucalossi) il 10,55%, nel novembre 1964 l’8,44%, e qui inizia il declino dovuto sia all’involuzione politica del saragattismo sempre più moderato e privato della sua sinistra che attraverso complessi percorsi scissionisti rientrava nel PSI (nel 1959 Aniasi con Corrado Bonfantini, Ugo Faravelli, Matteo Matteotti ma soprattutto uno dei grandi protagonisti della vita politica cittadina, Ezio Vigorelli), sia per la svolta del PSI che nel 1961 aveva partecipato al primo governo di centro sinistra a palazzo Marino, rompendo con i comunisti.
Tuttavia, ancora alle amministrative del giugno 1970, cioè dopo il fallimento dell’unificazione con il PSI ottennero (sigla PSU Partito socialista unitario) il 10,45% eleggendo tra gli altri Matteo Matteotti, Angelo Amoroso, Aldo Segagni, Paolo Pillitteri, Vittorio D’Aiello.
Nel giugno 1975 quando il PCI con il 30,39% diventa il primo partito cittadino, si attestano al 6,55% e alcuni eletti: Pillitteri, Armanini, Fiorellini lasciando il partito furono determinanti per la costituzione della prima giunta di sinistra con Aniasi sindaco, il 31 luglio 1975 esattamente cinquant’anni fa.
La giunta di sinistra milanese aprì la strada com’era successo anche in occasione del primo centro sinistra ad analoghe giunte in tutta Italia.
Di fatto qui finisce la storia dei socialdemocratici milanesi in gran parte entranti nel PSI di Craxi che alle elezioni del 1985 raggiungeranno a mala pena il 3%.

Ultimo protagonista di questa tradizione Renato Massari che entrato in consiglio comunale nella legislatura 1951/56 fu più volte assessore e poi parlamentare e sottosegretario e verrà rieletto al parlamento ancora nel 1992 nelle liste del PSI.
Gran parte del welfare e delle società municipalizzate milanesi nel dopoguerra porta la firma di dirigenti socialdemocratici: Edgardo Lami Starnuti fu presidente della Azienda Elettrica Municipale così come Roberto Tremelloni, e presidente dell’Ente di Assistenza Comunale, Ezio Vigorelli fu commissario straordinario dell’ECA con Aniasi segretario generale e presidente della Metropolitana Milanese (mori poco prima dell’inaugurazione della linea rossa), Giuseppe Spalla fu presidente della SEA, Duilio Benedetti fu al Pio Albergo Trivulzio mentre Ivan Matteo Lombardo già segretario nazionale del PSI dopo Morandi e prima di Basso e ministro del commercio estero fu presidente della Triennale di Milano (1949-61).
Cercherete invano una storia della socialdemocrazia milanese che non fu solo PSDI e Saragat ma anche PSU, PSULI, PSLI, Unità Popolare, Unità socialista, Socialisti indipendenti, PS SIIS, USI, Movimento dei socialisti Autonomi, PSA, Muis, etc. in un intreccio di correnti, liste, scissioni ed unificazioni lontano nel tempo ma ancora praticato ai giorni nostri.
Chi volesse saperne di più, può leggere il bel libro di Fabio Florindi L’eretico dedicato a una delle figure cardine del riformismo socialista e socialdemocratico milanese Giuseppe Faravelli (funzionario comunale milanese emigrato in Francia, direttore di Critica Sociale, assessore con Greppi, deputato).

Il declino della socialdemocrazia italiana di quegli anni si può riassumere nella parabola di Ezio Vigorelli Presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla, attiva dal 12 maggio 1952 al 24 giugno 1953 e ministro del Lavoro e della Previdenza sociale nel primo governo Scelta, dal 10 febbraio 1954 al 6 luglio 1955, nel primo governo Segni, dal 6 luglio 1955 al 19 maggio 1957, e nel secondo governo Fanfani, dal 1° luglio 1958 al 15 febbraio 1959, che aveva immaginato “una grande riforma dell’assistenza”; per questo fu chiamato il “Beverie italiano”, per la somiglianza politica con l’economista britannico, già direttore della Lindon School of Economica, autore di un Piano per le Assicurazioni sociali e i Servizi connessi, cui tra il 1945 e il 1951 si era ispirato il Governo laburista col suo National Health Service.
Scrive Mattia Granata: “Il pensiero di Vigorelli partiva da un’analisi dell’evoluzione che i concetti stessi di carità e filantropia avevano avuto nella storia, e dalla constatazione che tali attività non avevano portato alla soluzione del problema della miseria. A ciò contrapponeva il concetto di moderna assistenza, concepito come un dovere collettivo della solidarietà e che, in un regime intimamente democratico, doveva portare ad attuare un sistema di sicurezza sociale complessivo…Vigorelli osservava, che lo Stato disponeva e stanziava già una inutile ridda di miliardi, per una inefficiente assistenza, un complesso fantastico di denaro che raggiunge[va] e supera[va] la metà di tutte le spese dello Stato. Il Piano che egli proponeva, quindi, si basava sulla esplicitata necessità di non accrescere gli oneri finanziari che la collettività sopporta[va] (…) per l’assistenza.”
Realizzò fu ben poco; il suo Piano, fu accantonato per l’opposizione di altri ministri, la crisi governativa, i contenziosi giuridici, le interpretazioni della corte costituzionale, la mancata emissione dei decreti attuativi.
L’insuccesso di Vigorelli ministro fu l’insuccesso della via socialdemocratica italiana al welfare, quella che affondava le sue radici nella Milano di Critica Sociale e dell’Umanitaria e fu una delle ragioni della generale involuzione della socialdemocrazia italiana e del prevalere del Psi.
Indicativo lo scorato e oggi ironico titolo di un suo libro per Mondadori: “L’italiano è socialista e non lo sa”.
Saragat citando Claudio Treves sintetizzò così l’esperienza socialdemocratica: “se il destino non è un cinico baro, ci deve delle grosse rifatte. Speriamolo…”.
La speranza fu vana, il destino fu cinico e baro.
Walter Marossi
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