24 Giugno 2025
L’OMBRA DI STALIN NON È MAI SCOMPARSA
Le guerre senza le armi

Qualche sera fa ho riletto una mia disamina inerente al film “L’ombra di Stalin”, un film intenso e utile di Agnieszka Holland. Un’opera che non si limita a rievocare il passato, ma lo mette in dialogo con il nostro tempo. Racconta la storia vera di Gareth Jones, giovane giornalista gallese, che negli anni ’30 riesce a entrare nella Russia staliniana e a documentare con i propri occhi una delle più grandi tragedie del Novecento: l’Holodomor, la carestia forzata che devastò l’Ucraina tra il 1932 e il 1933, provocando milioni di morti. Un genocidio per fame, occultato, negato, manipolato.
Jones, un outsider della diplomazia britannica, un uomo inquieto e lucido, affrontò un viaggio quasi suicida per dare voce a chi non ne aveva più. Lo fece con la sola forza della verità, pagandone il prezzo. Il suo nome è finito in fondo ai libri di storia, schiacciato dalla macchina della propaganda sovietica e, più dolorosamente, dall’indifferenza dell’Occidente. Eppure, quella sua voce risuona ancora. Perché c’è qualcosa di terribilmente attuale nella storia che racconta questo film.
Guardando L’ombra di Stalin, è difficile non pensare ai tanti giornalisti di oggi che, come Gareth Jones, scelgono di entrare nelle zone d’ombra della geopolitica. Dall’Ucraina alla Siria, dalla Russia all’Iran, sono molti quelli che rischiano, o perdono, la vita per raccontare ciò che i potenti vogliono nascondere. Le tecniche sono cambiate, ma la strategia è sempre la stessa: controllare il racconto, screditare le fonti, trasformare la verità in opinione, e l’opinione in “fake news”.
Chi controlla la narrazione controlla la realtà. Stalin lo sapeva bene. Così come lo sanno certi leader contemporanei che, pur dichiarandosi democratici, limitano la libertà di stampa, arrestano oppositori, oscurano media indipendenti, e usano il linguaggio della paura per rafforzare il proprio potere. La verità diventa scomoda. Il giornalismo, un atto rivoluzionario.
L’Holodomor non fu una carestia naturale. Fu un progetto politico: un’arma rivolta contro un popolo accusato di resistere alle logiche della collettivizzazione voluta da Stalin. Una fame costruita a tavolino, attraverso requisizioni di grano, deportazioni, chiusura dei confini. Non è un capitolo isolato della storia. Anche oggi, in diverse regioni del mondo, il cibo, l’acqua, l’energia e l’accesso ai beni essenziali diventano strumenti di guerra.
Basta guardare a quanto accade a Gaza, dove il popolo palestinese, già schiacciato da decenni di occupazione e blocco, è oggi ostaggio di un doppio potere: da una parte l’estremismo sanguinario di Hamas, che ha portato morte e terrore anche in Israele; dall’altra, la risposta militare di Netanyahu, che si è tradotta in un assedio senza precedenti. Quartieri rasi al suolo, civili uccisi, bambini senza rifugi né ospedali. E ancora una volta, la fame, la sete e il collasso dei servizi di base usati come arma. Come se, punendo un intero popolo, si potesse spegnere l’odio.
Anche lì, come altrove, il potere gioca con la vita dei civili. E ancora una volta, la comunità internazionale resta sospesa tra impotenza, interessi e memoria corta.
Le guerre contemporanee, dalla Palestina al Sudan, hanno ancora oggi nel controllo del pane, dell’acqua, dell’energia le loro armi più efficaci. Non servono più le bombe per dominare: spesso bastano i silenzi, la censura, o l’indifferenza internazionale.
Uno dei passaggi più potenti del film è il richiamo a La fattoria degli animali di George Orwell. Non è una citazione casuale. Orwell conosceva bene la storia di Gareth Jones. E conosceva ancor meglio la capacità del potere di mascherarsi, di trasformare ideali rivoluzionari in strumenti di dominio. “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”, recita la celebre frase del libro. Valeva per la Russia staliniana. Vale ancora oggi.
Nel mondo globalizzato, il volto del totalitarismo non è più solo quello dell’uniforme militare o del culto della personalità. È più fluido, più subdolo. È l’autoritarismo elettivo, quello che si nutre di consenso costruito attraverso la paura, la disinformazione, il nemico immaginario. È la neutralizzazione del dissenso in nome della stabilità. È l’idea, pericolosissima, che libertà e sicurezza siano in competizione, e che la prima possa essere sacrificata alla seconda.
“La storia si ripete”, si dice spesso. Non è esattamente così. La storia non si ripete mai identica, ma certamente ritorna sotto nuove forme, se non viene compresa e custodita. C’è una frase di Hegel, spesso ripresa anche da Marx, che dice: “Ciò che l’uomo impara dalla storia è che l’uomo non impara nulla dalla storia”. È amara, ma difficile da contraddire.
Nel rileggere, nel ricordare L’ombra di Stalin, ho avuto la sensazione che la sua “ombra” non sia mai davvero scomparsa. Si è solo spostata. Ritorna nei regimi che negano le libertà, nei leader che reprimono la stampa, nei governi che scelgono l’opacità alla trasparenza. Ritorna nei popoli affamati non dalla natura, ma dalla strategia. Ritorna, soprattutto, nell’oblio di chi non vuole ricordare.
Eppure, esistono ancora persone come Gareth Jones. Esistono le voci fuori dal coro. Esiste il coraggio di guardare dentro l’ombra. E questo, forse, è ciò che può ancora salvarci.
Carlo Lolla
3 commenti