25 Marzo 2025
LA SINISTRA, LE SPESE MILITARI E IL NEUTRALISMO. UNA VECCHIA STORIA
Tra pace e guerra il dibattito si ripete
25 Marzo 2025
Tra pace e guerra il dibattito si ripete

“Spontaneamente ci tiriamo in disparte”, questa la “dura” presa di posizione dell’Avanti il 24 maggio 1915 all’indomani della dichiarazione di guerra all’Austria, logica conseguenza della scelta condensata nello slogan inventato da Costantino Lazzari segretario del PSI: “ne aderire ne sabotare”.
Ripensando a quella vicenda e agli effetti che ha avuto nella storia della sinistra e del paese forse il dibattito in corso sul riarmo europeo acquista una più cupa drammaticità.
L’avvento della Prima Guerra mondiale vide il Partito Socialista fermo sulle proprie posizioni pacifiste. Anche dopo l’intervento italiano, il Psi fu l’anima del movimento internazionale che ai Congressi di Zimmerwald (1915) e Kienthal (1916) riunì i socialisti di tutta Europa che si adoperarono per una pace immediata, senza né vincitori né vinti.
La parola d’ordine di Lazzari, né aderire né sabotare, era una faticosa mediazione tra l’anima internazionalista e pacifista ampiamente maggioritaria e quella democratico patriottica ampiamente minoritaria del partito, come scrisse Arfè: “un felice compromesso tra le esigenze dell’ideale e le necessità delle circostanze, ma che cristallizza l’atteggiamento del partito, bloccandolo su una posizione entro la quale non troveranno postò nei momenti decisivi né il discorso del Grappa di Turati – il tentativo cioè di gettare un ponte tra il proletariato e la coscienza patriottica del paese -, né la parola d’ordine della trasformazione della guerra imperialista in guerra rivoluzionaria”.
I riformisti avevano cercato la difficile sintesi tra “lavoratore-soldato” e “socialista”: gli amministratori dei grandi Comuni, adoperandosi per far sì che tutti coloro che soffrivano le conseguenze della guerra, i combattenti e le loro famiglie, i feriti e i mutilati, i lavoratori colpiti dall’inflazione e dalla penuria dei generi di prima necessità fossero tutelati, promossero attivamente la collaborazione tra tutti i ceti e tutti i partiti.
Sforzo che, accusato di “patriottismo”, venne condannato dalla direzione del partito, che propose tra l’altro anche le dimissioni di tutti i sindaci socialisti; il “socialpatriottismo” divenne la bestia nera del socialismo ufficiale e nel dopoguerra sarà alla base delle divisioni interne.
Milano, nei dieci mesi della neutralità italiana, tra l’estate del 1914 e la primavera del 1915 vide sfidarsi in piazza neutralisti e interventisti.
Il 15 maggio 1915, all’Arena si svolge un’imponente manifestazione interventista alla quale accorrono più di 100.000 persone e che vede la partecipazione di Alceste De Ambris, Filippo Corridoni e Benito Mussolini. Nelle strade e nelle piazze, così come in quelle di altre città, nei giorni del “maggio radioso” le manifestazioni si susseguono e danno luogo, come avvenne all’Arena, a scontri con diversi feriti e talvolta anche morti.
A Milano, il Consolato dell’Austria viene attaccato, mobili e documenti vengono dati alle fiamme tanto che bisognerà schierare l’esercito in sua difesa. Il clima di febbrile attivismo a favore della guerra trasforma i neutralisti e molti cittadini italiani e stranieri in nemici della Patria. Nonostante le proteste di leader come Filippo Turati, i sospettati “filotedeschi” vengono allontanati dalla città o subiscono vere e proprie azioni di rappresaglia.

Come la pensasse Caldara è ben evidenziato dal suo intervento alla riapertura di Palazzo Marino l’11 settembre 1914, le elezioni le aveva vinte il 14 giugno ma nel frattempo vi era stato Sarajevo: “guerra fatta scoppiare con un pretesto, in oriente, per un gigantesco conflitto d’interessi economici dell’occidente” e così definiva il suo compito di sindaco: “a parte i centuplicati doveri amministrativi abbiamo un grande dovere politico…di concorrere a mantenere la neutralità italiana. Il dovere della neutralità dev’essere superiore ad ogni altro pur generoso impulso…Ove gli avvenimenti, tuttavia, volgessero a minacciare l’integrità e la vitalità nazionali, sapremmo dimostrare di non essere ad alcuno secondi nell’adempimento di altri doveri”.
Il sindaco dal 24 maggio 1915 attiva la macchina comunale in uno sforzo a sostegno della mobilitazione che non ebbe eguali per misura e per efficacia, riuscendo nella difficile impresa di restare leale alle posizioni neutraliste del partito, ma contemporaneamente dispiegare lo sforzo maggiore in difesa della popolazione civile colpita dalla guerra.
Esemplare la lettera da lui indirizzata alla Lega dei Comuni socialisti nel novembre del 1917:
“A me e ai miei colleghi di questa Giunta Municipale è parso che di fronte all’invasione nemica il dovere dei magistrati eletti al Comune sia quello di rimanere sul posto – maggior ragione se maggiore è il pericolo – per proteggere fino all’ultimo i loro amministrati. Fino a che un vecchio o un malato rimanga nel Comune il sindaco dovrebbe essere vicino a quell’uno. Questa doverosa linea di condotta servirebbe anche a conservare tutto quel poco che è possibile della vita civile e limitare l’esodo delle popolazioni, il quale, se continuerà ad essere generale, potrebbe indebolire per intuitive ragioni di carattere fisico e di carattere morale la resistenza del paese”.

Per tutta risposta l'”Avanti!”, il quotidiano del suo partito, assunse immediatamente una posizione critica e contraria (il suo attivismo durante la guerra costò a Caldara la mancata ricandidatura a sindaco nel dopoguerra), quasi sfiduciandolo e analoghe censure vennero a Caldara anche dal prefetto di Milano, che di lì a qualche mese impedirà la pubblicazione di un manifesto del Comune e di un appello dello stesso Caldara, con D’Aragona, Turati e Treves, che delineava un programma per il dopoguerra, del resto dal prefetto e dalle destre fu più volte chiesto il commissariamento di Palazzo Marino.
Opposto il percorso di Bissolati e Bonomi, i “socialriformisti” che il 18 giugno 1916 sono parte del governo di coalizione presieduto da Boselli.
Le posizioni tra i due partiti socialisti non potevano essere più divergenti. Bissolati e i suoi compagni del Partito Socialista Riformista, insieme ai tanti interventisti democratici, “i raggirati dalla storia” li chiamerà Turati, sostennero in chiave risorgimentale, l’intervento a fianco dell’Intesa (l’alleanza franco-inglese con la Russia) contro l’imperialismo austro-tedesco, oppressore nei Balcani e colpevole dell’invasione del Belgio neutrale.
Le difficoltà della posizione socialista però si evidenziarono soprattutto dopo la sconfitta di Caporetto dell’ottobre 1917, quando la questione della difesa della Patria prese il sopravvento sulle ragioni della guerra e della pace, e l’unità del PSI, che non era stata intaccata nemmeno dall’espulsione di Mussolini nel novembre del 1914, fu invece messa a dura prova.
Le differenze tra interventisti e pacifisti non seguivano però solo lo schema tradizionale riformisti versus rivoluzionari/massimalisti; esemplare il caso del “marchese di Caporetto”, questo lo sprezzante appellativo con cui veniva chiamato il leader dei riformisti di sinistra e più stretto collaboratore di Turati, Claudio Treves, già estensore della relazione Il problema degli armamenti e l’azione del movimento operaio internazionale presentato al congresso di Ancona del 1914, una durissima opposizione alle spese militari.
L’ex direttore dell’Avanti sosteneva sul Corriere della sera del 23 ottobre la neutralità assoluta e l’inconciliabilità più assoluta tra guerra e socialismo eccezzion fatta per la legittima difesa, “avendo sempre osteggiato i crediti militari non mi sento, nella mia lealtà di avversario dello Stato borghese, di potergli suggerire altro atteggiamento che quello della pace”; venendo attaccato ovviamente da Mussolini (vi fu anche un duello) che lo definì nell’ordine: ripulsivo, cinico istrione, moglio, disertore, triplice coniglio, malvagio, volgare, schifoso per concludere tempo dopo che l’unico Treves utile alla causa nazionale era un Treves morto “un rosso di meno a questo mondo”, ma anche da Salvemini, Colajanni, Bonomi, Bissolati e Nenni che lo definì “uomo di volgari passioni, uso ad aver obliqui contatti con lo straniero”, in pratica una spia, un traditore, un corrotto. (cfr A. Casali)
Il tutto condito da una dose di antisemitismo come scriveva la Voce: “puzza di muffa e decadenza…ebreo fino al midollo delle ossa, con gli istinti calcolatori e trafficanti della razza”, mentre sobriamente il giornale repubblicano l’Iniziativa lo definiva la “più sfacciata baldracca del socialismo nostrano”.
L’apice fu raggiunto quando Treves alla Camera il 12 luglio 1917 terminò un suo discorso con lo slogan: “Il prossimo inverno non più in trincea!” considerato un appello alla diserzione e alla pace separata.
Quando nel paese le iniziative pacifiste si moltiplicarono, specie dopo La nota ai capi dei popoli belligeranti di Benedetto XV, configurando per il governo una congiura tra clericali, “sovversivi” e neutralisti per favorire la vittoria nemica, che veniva confermata dalle proteste di piazza torinesi del 22 25 agosto, Treves, di cui Bissolati chiedeva punizioni esemplari, divenne il disfattista perfetto perché come scrisse Dino Grandi “lo slogan di Treves ripetuto da milioni di soldati in trincea fiaccava lo spirito dell’esercito nel momento più difficile al fronte”.
Non da meno fu il pacifismo di Matteotti, di 16 anni più giovane, che in consiglio provinciale a Rovigo sosteneva la “neutralità assoluta, la neutralità a qualunque costo…noi gridiamo abbasso il militarismo”; arrivando a contestare Turati “è permesso affermarsi recisamente, assolutamente neutralisti senza essere dei sentimentalisti, senza diventare temerariamente demagoghi, senza sentirsi dire imbecilli? È permesso indicare al nostro partito il dovere di opporsi con tutte le armi possibili…A Filippo Turati, a troppi altri pare di no”. (vedi S. Caretti)

Anche per Matteotti come per Treves “ogni partito socialista vota contro le spese militari ordinarie del proprio paese per significare l’intesa, le aspirazioni internazionali dei lavoratori contro i governi dominanti” (su Critica Sociale), da lì anche l’ammirazione per Karl Liebknecht che era stato l’unico parlamentare socialista tedesco a votare contro i crediti di guerra. Ricorda Piero Gobetti “Matteotti parlò contro la guerra. Ripeté il suo discorso, anche quando non c’era più pacifista che parlasse”.
Per il suo pacifismo subì le prime aggressioni delle molte patite, fu processato e condannato, richiamato nonostante fosse stato riformato e spedito fino al 1919 in Sicilia in un reparto militare di punizione. (vedi G. Scirocco Neutralità a qualunque costo).
Se Treves si riallineò a Turati dopo Caporetto: “Quando la patria è oppressa, quando il fiotto invasore minaccia di chiudersi su di essa, le stesse ire contro gli uomini e gli eventi che la ridussero a tale sembrano passare in seconda linea, per lasciare campeggiare nell’anima soltanto l’atroce dolore per il danno e il lutto, e la ferma volontà di combattere e di resistere fino all’estremo”, (Filippo Turati e Claudio Treves, “Proletariato e resistenza”, Critica Sociale del 1-15 novembre 1917) Matteotti restò sulle sue posizioni e ancora nel 1923 contestò la partecipazione dei socialisti alle celebrazioni dell’anniversario della Vittoria ancorché funzionali ad attaccare la demagogia mussoliniana.
Il neutralismo che già al congresso socialista tenutosi a porte chiuse a Roma nel settembre 1918 era risultato maggioritario è alla base, unitamente all’infatuazione mitica per la rivoluzione d’ottobre, della travolgente vittoria massimalista al XVI Congresso Nazionale dal 5 all’8 ottobre 1919 al teatro comunale di Bologna; Giacinto Menotti Serrati ottiene 47.966 voti, contro i 14.935 di Costantino Lazzari (appoggiato anche dai riformisti) e i 3.350 dei comunisti di Amedeo Bordiga. Nicola Bombacci è eletto segretario, viene adottato il simbolo della falce e martello, votata l’adesione alla Terza Internazionale filosovietica e la violenza è accettata come mezzo di lotta politica: si deve “spingere il Proletariato alla conquista violenta del potere politico ed economico”, che dovrà essere affidato interamente ai Consigli degli operai e dei contadini; in pratica i riformisti sono fuori dal partito.

Pochi mesi prima, l’11 gennaio 1919, a Bissolati che sosteneva posizioni simili a quelle di Wilson e cioè che l’Italia non doveva avanzare richieste territoriali che andassero al di là del compimento dell’unità nazionale (Trento e Trieste, Istria, Fiume e Zara) e doveva favorire, contro ogni pretesa imperialistica, l’indipendenza di tutti i popoli europei fu impedito di parlare alla Scala da un pubblico di nazionalisti e futuristi, che lo tacciavano di rinunciatarismo.
Pochi mesi dopo alle elezioni del 16 dicembre 1919 (sistema proporzionale e suffragio allargato a tutti i cittadini maschi maggiorenni analfabeti inclusi e, tra i minori, tutti coloro che avevano combattuto in guerra) clamoroso successo del PSI che prese nazionalmente il 32,28% da 53 a 156 deputati, in Lombardia il 46% e a Milano addirittura il 53,88% (maggioranza assoluta ottenuta anche l’anno dopo alle amministrative).
Più di cento anni dopo il dilemma sugli armamenti pare essere ancora: schierarsi con Bissolati Turati o con Matteotti Treves?
Walter Marossi
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