11 Marzo 2025
LA PERCEZIONE DELL’AMBIENTE
Vedere e non solo guardare

La camminata urbana, o di quartiere, è una pratica che si sta diffondendo negli ultimi anni in diversi centri d’Italia, ma le finalità e le aspettative sono diverse a seconda dell’ente o persona che ne è promotore.
Certamente alla base vi è l’esigenza dei residenti di una più approfondita conoscenza del territorio, sia perché ci si vuole riappropriare dello stesso, in cerca di una perduta identità sociale e culturale, sia perché si è in cerca di una chiave di lettura che aiuti nelle strategie d’intervento. È un dato di fatto che gli spazi urbani non sono vissuti adeguatamente: la sosta in piazza fine a sé stessa è un evento raro e per pochi, e perfino gli adolescenti non rispondono più al richiamo del rituale “incontro al solito posto”.
La città evolve spesso in modo distaccato rispetto alle esigenze del cittadino, e la serialità degli eventi è tale da amplificare inesorabilmente alcuni effetti negativi, quali l’aumento della percezione del rischio, il fallimento delle attività commerciali e la svalutazione degli immobili.
Il cittadino sente la necessità di conoscere meglio il proprio territorio e di identificarsi con esso, e questo si esprime con diverse modalità di approccio. Che si tratti di iniziative di percorsi podistici, con finalità più ludico-sportive o che si tratti di incontri per facilitare il dialogo tra generazioni, classi sociali e professionali diverse, l’obbiettivo finale è comunque quello di generare strategie politiche e proposte condivise per la gestione del futuro della città e incrementare il senso di appartenenza dei cittadini.
L’esperienza diretta del luogo, attraverso il percorso materiale dello spazio (a piedi o in bici) diventa il miglior strumento di analisi e di progettazione, poiché facilita il reset dei preconcetti di ordine politico, sociale e antropologico, e veicola proposte di intervento più creative ed originali. Il cittadino medio ha ormai sviluppato una forte capacità critica sugli aspetti legati alla vita urbana: una più democratica informatizzazione ma soprattutto l’esperienza diretta e continuata delle “cose urbane”, ha conferito allo stesso nuove competenze al punto da renderlo una risorsa e uno strumento indispensabile nella pianificazione territoriale.
Quella che ormai comunemente viene definita “progettazione partecipata” però non riesce da sola a risolvere la complessità delle problematiche da affrontare. C’è dell’altro. Esistono dei fattori che interferiscono nell’evoluzione e nella caratterizzazione di un luogo che sono evanescenti, inafferrabili, difficilmente individuabili, perché troppo “sottili” per essere percepiti con strumenti ordinari della “tecnica” urbanistica e architettonica: alcune zone di città, apparentemente funzionali, sono spesso percepite come meno belle, meno sicure e meno sane, e non si riesce a capirne il motivo.
Si parla di segnali deboli, che non sono facilmente rilevabili e riconoscibili se non da occhi esperti. Essi condizionano profondamente il nostro comportamento, modificano la nostra percezione della realtà concreta (oggettiva) e della realtà mentale (soggettiva). “Alla ricerca dei segni deboli della città”, per uno sguardo attento che aiutasse a cogliere questi segnali nascosti ed effimeri. Questa chiave di lettura alternativa non è nuova: già nel 1964 Kevin Lynch scrive “L’immagine della città”, e parla di una nostra percezione dello spazio urbano non distinta, ma parziale, frammentaria e mista ad altre sensazioni. La sua leggibilità tiene conto delle sensazioni “di colore, di forma, di movimento, di luce, dell’udito, del tatto, della cinestesia, della percezione di gravità, perfino di forze di campi elettrici e magnetici…”.
Le linee guida del teorico americano sono state affiancate dalle più recenti conoscenze acquisite in campo neuroscientifico: le scienze cognitive, la neurospicologia e la neurofisiologia, assieme alla psicologia ambientale, analizzano nel dettaglio gli aspetti percettivi, cognitivi ed emozionali, e caricano di significato fattori ambientali che sono stati fino ad ora ignorati, o considerati privi di efficacia concreta. Questi stimoli multisensoriali, che si traducono in modifiche comportamentali sia a livello sociale che individuale, trasformano la nostra esperienza del luogo e possono essere all’origine dei successi e/o degli insuccessi di alcune strategie urbane ed architettoniche, per quanto riguarda sia la qualità della vita dei residenti, sia le dinamiche commerciali e turistico-sociali in senso lato.
Questo primissimo tentativo locale di lettura “psicologica” del tessuto urbano ha riscontrato una risposta forte dei partecipanti. L’omogeneità del gruppo ha consentito un linguaggio unico, utile in questa prima esperienza esplorativa, ma che ha limitato, anche per il tempo ridotto, una lettura più libera e più diversificata, lasciando ai partecipanti il desiderio di replicare l’esperienza e consentire un confronto più approfondito su un tema così innovativo e complesso che coinvolgono altri percorsi, nei vari paesaggi ambientali , contesti ambientali completamente diversi ed i partecipanti, eterogenei per diversa provenienza geografica e professionale, sono stati guidati, lungo un percorso che ricalcava il tracciato storico ben conservato, dove l’architettura, assolutamente organica ed espressiva del luogo, ha espresso evidenti e chiari richiami ad una vita sociale ormai scomparsa ma ricca di suggestioni e stimoli percettivi.
È stata una bella occasione rilassata per “ascoltare” e toccare con mano quello che le città moderne spesso non riescono ad offrire, ma anche avere piena consapevolezza sensoriale di fenomeni che comunque agiscono a livello corporeo. È anche strano però che la pianificazione contemporanea (e la progettazione in genere) non sfrutti al massimo le sue reali potenzialità, e trascuri strumenti di indagine che potrebbero aiutare a capire meglio e prevedere le nostre reazioni comportamentali, e avere un potere anticipatore sugli scenari futuri, per definire un più corretto percorso di sviluppo della città. Le esperienze sopra citate di “camminata percettiva” offrono un primo modello di esplorazione, certo inusuale, che alimenta una “democrazia partecipativa” dal basso, e che raccoglie stimoli e conoscenze utili per la crescita e la consapevolezza del senso di appartenenza ad un luogo.
Mauro Bianconi