28 Gennaio 2025

PROCURA, SALVA MILANO, PGT E DINTORNI

Tra edilizia e urbanistica tra passato e presente


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Le recenti vicende milanesi su contestate costruzioni e autorizzazioni edilizie, in sede giudiziaria, politica e pubblica, sollevano varie questioni d’ordine strettamente disciplinare circa l’interpretazione di norme urbanistiche ed edilizie ma più in generale inducono un diffuso disagio sulla certezza del diritto e l’attuazione del Piano urbanistico comunale. Il Piano del Governo del Territorio, come ridenominato con legge urbanistica della Regione Lombardia nel 2005.

Un caso, quello di Milano, che appare senza precedenti, perché nella capitale economica e in un contesto amministrativo certamente non arretrato. Una vicenda quindi da non poter passare in sott’ordine ed essere derubricata a uno dei purtroppo non rari episodi di abuso edilizio, tale da aver indotto la politica nazionale a doversene far carico con la proposta di una legge ad hoc, la cosiddetta “Salva Milano” con un passaggio parlamentare bipartisan.

 La vicenda ormai ultra nota ruota attorno a diverse pratiche edilizie, autorizzazioni e costruzioni basate su una diversa interpretazione di quanto sancito dalla legge urbanistica nazionale del 1942 e delle integrazioni apportate nel 1968 e 1969. 

La legge del ’42 vigente è esemplare nel suo impianto generale e nelle disposizioni di dover ricorrere a Piani Attuativi per edifici di altezza superiore ai 25 metri e densità edilizie superiori ai 30.000 metri cubi per ettaro. La necessità quindi, per interventi di una certa consistenza, di uno studio di inquadramento più generale rispetto al solo progetto architettonico, al fine di approfondire le relazioni col contesto, la reperibilità degli standard urbanistici e gli impatti ambientali. Uno studio importante per declinare le indicazioni generali del Piano Regolatore in una pratica attuativa riferita a un più circoscritto intorno. 

Un approccio fondamentale per la funzionalità del tessuto urbano, per una corretta distanza tra le costruzioni, per la dotazione di servizi di vicinato. Senza ciò è evidente che lo sviluppo del territorio non sarebbe altro che un casuale accostamento di interventi autoreferenziali. E questo, con grande chiarezza, era nello spirito del legislatore. 

Negli anni Settanta, anche con la istituzione delle Regioni, sono intervenute altre norme per gli interventi urbanistici ed edilizi, anche con riferimento alla tematica del recupero edilizio, declinato con chiarezza nelle sue categorie dalla manutenzione ordinaria alla ristrutturazione urbanistica.  In particolare in Lombardia con l’aumento degli standard urbanistici rispetto a quelli nazionali. L’attenzione quindi ad una pianificazione sempre più attenta alla trasformazione del tessuto urbano, che darà luogo negli anni successivi a diverse forme di Piani attuativi. Dai Piani di Recupero, ai Piani Integrati di Intervento, fino ai Contratti di Quartiere, con la collaborazione tra pubblico e privato per incentivare le trasformazioni urbanistiche ed edilizie a scala ridotta fondamentali per la qualità residenziale. Una stagione in sintonia con una dinamica socio economica interessata alla valorizzazione e trasformazione delle città.

Gli anni Ottanta e Novanta, quindi, particolarmente dinamici, già sollecitavano una riflessione sulla opportunità di mettere ordine tra le iniziative e le prassi urbanistiche ed edilizie nei diversi contesti regionali e comunali; peraltro senza contraddizioni rispetto ai capisaldi della legislazione urbanistica nazionale. 

La ripresa quindi di un dibattito per una riforma della legge urbanistica nazionale per contemplare ed integrare nuove disposizioni in un Testo Unico che, nello spirito della legge del 1942, fosse in grado di fornire ai Piani Urbanistici adeguati strumenti per governare le nuove dinamiche, recependo anche le direttive europee in materia di valutazione ambientale e gli orientamenti di altri Paesi in materia di pianificazione strategica. Un dibattito che si ravvivò in particolare a cavallo del 1992, in occasione del cinquantenario della legge urbanistica del ‘42, con diverse proposte di parlamentari tra cui il senatore Cutrera e gli onorevoli Mantini e Lupi, senza però approdare in aula.

Un tema, la necessità di una riforma urbanistica, che ha sempre aleggiato nel dibattito politico, culturale e disciplinare fin dal primo Governo del Centrosinistra degli anni Sessanta, che rimanda al clamoroso caso delle dimissioni del ministro Fiorentino Sullo con l’affossamento della sua iniziativa supportata dai più importanti urbanisti d’allora: uno scontro tra il cosiddetto “Blocco edilizio” e le istanze riformatrici programmatiche della nuova coalizione governativa.

Un problema ciclicamente riemergente, ma mai affrontato dalla politica con la determinazione di pervenire a una soluzione adeguata alle mutate condizioni, anche procedurali e burocratiche per la complessità di norme e regolamenti di diverso ordine parte integrale dell’aspetto procedimentale di ogni pratica urbanistica ed edilizia. Nonostante iniziative e convegni, studi e analisi comparate delle legislazioni di altri Paesi e lavori di Commissioni parlamentari, si è preferito ricorrere a provvedimenti parziali e congiunturali, complicando ulteriormente il quadro, spesso con contenziosi tra comuni, regioni, stato.

Un nodo alla base di una nuova legge urbanistica è sempre stato il riconoscimento del diritto di edificazione sui suoli urbani dopo la sentenza della Corte Costituzionale, con leggi urbanistiche regionali nell’ottica della cosiddetta “perequazione”, cioè attribuendo un indice edificatorio ad ogni area, comprese quelle pubbliche, negoziabile e trasferibile nel caso di inedificabilità per vincoli di interesse generale. Una modalità da tempo presente nelle legislazioni dei paesi europei, come ad esempio in Francia con il “plafond de èdification” esplicitamente richiamato nella proposta Cutrera già alla fine degli anni Ottanta. In questo contesto, nella redazione dei nuovi Piani del Governo del Territorio si sono introdotti diverse valutazione nel calcolo degli standard e dei servizi anche se privati. 

Un terreno delicato per la opinabilità di alcune scelte, accentuando anche la delega ai privati per la realizzazione di opere pubbliche in sconto oneri di urbanizzazione. Una problematica che rimanda alla diminuita capacità degli uffici comunali ad affrontare la progettazione e l’appalto delle opere. Una scelta anche politica di sburocratizzazione e snellimento dei tempi di realizzazione, a condizione però di una adeguata trasparenza e capacità di controllo.

Ritornando alla intricata questione milanese molti dei problemi emersi richiamano questo retroterra, senza una visione unificante nella pelle di leopardo di leggi regionali, decreti, circolari interpretative, giurisprudenza amministrativa e penale e una rivendicata autonomia degli enti territoriali con diverse procedure urbanistiche e regolamentari in materia edilizia edilizi.

La prassi instauratasi a Milano ha ritenuto che i Piani Attuativi non fossero necessari in contesti dove gli standard si valutavano già soddisfatti, derogando quindi dalla legislazione nazionale, non tenendo conto che un ulteriore carico volumetrico e altezze degli immobili alterano comunque le relazioni funzionali e la qualità ambientale, con coni d’ombra, distanze tra edifici e interferenze con le visuali libere di quelli esistenti; tanto più quando i possibili trasferimenti volumetrici si ripercuotono sulla congestione delle infrastrutture e necessità di nuovi parcheggi. Compito quindi di tali Piani è definire un progetto che tenga conto di tali criticità apportando le opportune soluzioni e mitigazioni. L’assenza di tali Piani e la possibilità di utilizzare una SCIA, cioè una semplice comunicazione di inizio lavorio e non un Permesso di costruzione, rende il quadro ancor più critico.

Situazione ancor più discutibile quando in base a estensive interpretazioni della classificazione degli interventi con le Norme per l’edilizia residenziale del 1978, con ripetuti interventi del legislatore dal Testo unico in materia edilizia del 2001, con ulteriori interpretazioni nel 2013 a quello del 2020 con riferimento alla rigenerazione urbana, la ristrutturazione edilizia è stata estesa anche alla demolizione e ricostruzione con cambio di sagoma. Un non senso logico e terminologico, nonostante innumerevoli sentenze avessero ribadito il significato della originaria definizione. Una lunga pervicace determinazione di interessi immobiliari con la disponibilità di diversi enti locali ad ampliarne l’interpretazione, con l’argomentazione a sostegno dell’economia urbana ed edilizia. 

In tal senso state sviluppate interessate argomentazioni giuridiche; come nel caso più limitato di cortili dichiarati non più tali dalla Commissione del Paesaggio di Milano per potevi far sorgere nuove costruzioni e da cui ha preso avvio l’azione della Procura.

Con la proposta di legge “Salva Milano” si è pensato, quindi, di sanare una situazione intricata per responsabilità amministrative e spregiudicate operazioni immobiliari. Un provvedimento invocato in particolare dalla amministrazione comunale e dai costruttori, per la necessità di legittimare quanto fatto nella prassi milanese e non ostacolare lo sviluppo della città, l’imprenditoria e l’occupazione edile. Tutto ciò in nome di una rigenerazione urbana che per la natura delle trasformazioni accentuatamente privatistiche non è dato di vedere, con le criticità delle periferie, assenza di opere pubbliche e decoro urbano. 

Così s’è avviato l’iter con un accordo trasversale per l’approvazione di una legge ad hoc, passata per ora alla Camera, con la dichiarazione che entro pochi mesi il Parlamento dovrà ordinare la legislazione in materia, superando quindi i limiti della legge urbanistica nazionale come dalle interpretazioni milanesi, con una ricaduta quindi su tutto il territorio nazionale. La portata di tale provvedimento non poteva non balzare agli occhi, sollevando ripensamenti anche all’interno degli stessi partiti che si sono espressi favorevolmente alla Camera, nell’opinione pubblica e di architetti e urbanisti, e in oltre con perplessità circa la sua costituzionalità. La questione si è ulteriormente complicata con i primi rinvii a giudizio di imprenditori, funzionari comunali e progettisti. Si prospettano pertanto tempi non brevi con ipotesi di modifiche in Senato e quindi una doppia lettura, in un quadro in cui interferiscono diverse valutazioni partitiche.

Una situazione che appare difficile dipanare se non riprendendo la questione urbanistica nei suoi termini generali, troppo importante per essere confinata a codicilli e norme congiunturali, soprattutto in questa fase di profondi cambiamenti e un diverso ruolo che il territorio sta assumendo nelle trasformazioni economico sociali. Per troppo tempo il problema è stato accantonato, con il disarmo della funzione pubblica nella pianificazione urbanistica, soprattutto di area vasta e metropolitana, lasciando libero corso a iniziative e investimenti privati sempre più rilevanti e aggressivi. Processo non semplice quando tanti nodi vengono al pettine senza una struttura amministrativa dotata di adeguati strumenti di promozione, progettazione e controllo dello sviluppo qualitativo del territorio. Una legge quindi che chiarisca i tanti termini della questione urbanistica, della rigenerazione urbana, delle scale della pianificazione e del consumo di suolo.

Parlare di riforma urbanistica era diventato un tabù. Ora è difficile argomentare che si possa continuare sulla strada degli ultimi due decenni. La crisi milanese potrebbe diventare quindi una occasione per un aperto confronto, fuori e dentro il Parlamento. Ci sono le condizioni? Più in generale le riforme invocate da più parti alla prova dei fatti hanno difficoltà a farsi strada nel confronto politico. Si richiederebbe poi, per l’urbanistica, anche una tensione civile dentro l’università dove si formano i tecnici e i quadri dirigenti per progettare la qualità dello spazio del nostro futuro. La sostenibilità ambientale è diventata un mantra. Ma come senza una determinazione pubblica, senza una condivisa coscienza della natura sociale dell’urbanistica?

  

Fabrizio Schiaffonati

   



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  1. Giancarlo CapitaniOttima e utile ricostruzione ! Ma è difficile credere che la " coscienza della natura sociale dell'urbanistica" sia fatta propria da architetti che prima contribuiscono a stabilire che un cortile non è un cortile e poi firmano manifesti o petizioni contro le politiche urbanistiche del Comune.
    30 Gennaio 2025 • 12:45Rispondi
  2. Andrea Vitaliun cortile è un cortile è un cortile, diceva Gertrude Stein...
    30 Gennaio 2025 • 19:34Rispondi
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