17 Settembre 2024

TASSARE LE  PERICOLOSE BICICLETTE

La curiosa "politica" del velocipede


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Il rapporto tra la bicicletta e la città è sempre stato, almeno agli esordi piuttosto contrastato. Il 5 aprile 1869 il sindaco Belinzaghi: “attesa la condizione delle pubbliche vie di Milano, ed il continuo passaggio per le medesime di veicoli e pedoni, la circolazione dei velocipedi riesce pericolosa tanto alle persone che se ne servono quanto al pubblico”, vietava in via assoluta l’uso dei velocipedi in tutta la zona della città racchiusa entro la cerchia del naviglio, lungo tutti i corsi nei pubblici giardini, lungo i bastioni, i viali di foro Bonaparte, provocando la dura reazione dei proprietari di velocipedi che si erano già organizzati in un club. 

partenza-prima-tappa-primo-giroIl comune tenne duro per poco, già nel 1871 il divieto venne ridotto fino a scomparire quasi del tutto vent’anni dopo quando fu pubblicato il regolamento di pulizia municipale.

Il motivo principale del divieto era la convinzione che il velocipede fosse un bene di lusso a disposizione di una classe privilegiata di cittadini.

Scrive Belloni: “I nomi dei promotori, dei presidenti e dei componenti gli organi direttivi dei club ciclistici rimandano a una élite sociale che tuttavia spesso non era (o non soltanto) la vecchia élite aristocratica, quanto piuttosto la nuova élite alto-borghese legata al mondo degli affari, dei commerci e delle industrie emergenti.”

Inoltre, l’uso della bicicletta era ritenuto sconveniente in particolare per le donne; vi fu ampio dibattito sul fatto che pedalando esse mostravano il lato b agli inseguitori, per non parlare dei danni provocati all’apparato riproduttivo e dello scandalosissimo uso dei pantaloni. Esagerazioni che per converso trasformarono il velocipede in un simbolo internazionale della emancipazione femminile. Su Godey’s, un mensile femminile dell’epoca si legge “in possesso della sua bicicletta la figlia del 19esimo secolo realizza la sua dichiarazione d’indipendenza”.

Molte furono le gare per sole donne (ma nel 1894 l’Unione velocipedistica italiana vieta le gare femminili su pista) e alcune influencer del tempo, in primis Lina Cavaliere tra le più famose artiste europee definita da D’Annunzio “la massima testimonianza di Venere in terra” sono testimonial del nuovo mezzo.

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A rendere popolare la bici anche iniziative spettacolari come la sfida tra Buffalo Bill a cavallo e un ciclista. Il confronto si svolge a Milano (al vecchio Trotter, in zona Stazione Centrale) e a Bergamo. Gli sfidanti furono a Bergamo Amilcare Perico detto “il Diavolaccio” e a Milano Romolo Buni, panettiere di Porta Lodovica, per la cronaca vinse Buffalo Bill (ma si disse anche che non gareggiò lui, bensì una controfigura).

Poiché vietarne l’uso era ormai impossibile, circolavano in città ormai un 5000 velocipedi, il comune pensò bene di trarne qualche giovamento economico e propose nel gennaio del 1893 una tassa, di 12 lire per ogni singolo veicolo (5 per i noleggiatori).

Favorevole in consiglio comunale la maggioranza ma anche parte delle opposizioni, anzi proprio il socialista Majno, convinto che si trattasse di un bene di lusso, stroncherà la proposta di una tassa ridotta per chi ne fa un uso lavorativo: “ogni cittadino potrà addurre una scusa di occupazione. Gli avvocati diranno che si recano in tribunale i consiglieri comunali alle sedute etc”.

Poiché però anche allora le relazioni tra la municipalità e il governo nazionale erano improntate a reciproca antipatia il Consiglio di Stato boccia la tassa con il plauso del consigliere comunale Mussi, leader radicale e futuro sindaco che stigmatizza “la complicata matassa di leggi e leggine in queste materie”; il comune fece ricorso e nel marzo 1894 arrivò la irrevocabile e definitiva decisione del Consiglio di Stato avversa al comune di Milano.

La gioia dei velocipedisti fu di breve durata e con la legge 540 del 1897, lo stato decideva un balzello di 10 lire al possesso di ogni bicicletta, le entrate sarebbero state divise fra Regno e Comune. 

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Con quella stessa legge lo stato liberalizzò l’uso dei velocipedi in tutti i comuni del Regno, pur lasciando alle amministrazioni locali qualche piccolo margine di divieto. Il comune delibera di nuovo il 9-10 febbraio 1898, “avvertendo coloro che posseggono velocipedi ed apparecchi assimilabili ai velocipedi, che dovranno denunciarli non più tardi del 26 corr. ai rispettivi uffici mandamentali, ritirando il certificato di denuncia che darà diritto alla libera circolazione fino all’effettuato pagamento, dopo la pubblicazione del ruolo”. Da più parti si chiese l’istituzione di una patente comunale.

La tassa restò in vigore sino agli anni ’40 quando la limitazione per ragioni belliche dei carburanti favorisce l’utilizzo delle due ruote.

In contemporanea a questi provvedimenti il dibattito in città si infiammò, scelgo a caso tra gli articoli del tempo:

1895 “i signori velocipedisti delle proteste del pubblico e dei giornali se ne ridono allegrissimamente considerando che infine fanno quello che vogliono pedaleggiano secondo il loro capricci, girano di notte senza fanale, sicuri come sono gli agenti municipali occhi hanno e non vedono, orecchie hanno e non sentono”

1896 “i reclami e i lamenti orali ed epistolari che ci pervengono sono innumerevoli…il municipio cedette troppo e si fidò troppo fece regolamenti ai quali nessuno bada…Pensiamo che se a Milano ci sono 10000 persone che vanno in velocipede ce ne sono oltre 44000 che vanno a piedi…quando una guardia osa fermare un ciclista si sollevano indignati tutti i pedali della penisola… e in quanto ai processi ci sembra quasi che i ciclisti tendano a formare una classe sacra e inviolabile”

arrivo-primo-giro1897 “i velocipedisti trasformati in velocipedastri corrono all’impazzata per quelle vie e piazze trasformate in piste perpetue ed in pericolo perpetuo per tutti i bimbi del quartiere…alla sera quando ci sarebbe maggiore bisogno della presenza di un agente non se ne vede l’ombra”

1899 “Il ciclista omicida …sono ormai troppi i velocipedastri petulanti e imprudenti”

Deciso un lettore che scrive al Corriere: “Se si va avanti di questo passo sarà impossibile passeggiare per Milano…per quelle maledette biciclette che vi capitano addosso come fulmini senza pietà…io già dico francamente piglierò a colpi di rivoltella il primo che mi getterà per terra…Biciclisti avvisati mezzi salvati”.

Le biciclette erano costose 600-700 lire (a fronte di un salario giornaliero di circa 1,69 lire) ma con l’aumento della produzione nazionale, a Milano divennero famose le “Milano” a Porta Nuova e Prinetti & Stucchi di via Tortona, i prezzi calano e il pubblico si allarga; se nel 1896 vi erano 30.000 velocipedi circolanti nel paese cinque anni dopo erano 143.000 per arrivare nel 1920 a 1.600.000.

Ancora nel 1905 in vista dell’Expo dell’anno dopo in consiglio comunale il radicale Cesare Sala chiedeva di limitare l’uso della bicicletta ottenendo in risposta dalla giunta la creazione di una commissione di studio per creare dei “posteggi” comunali sorvegliati, non se ne fece nulla.

Curiosissimo l’uso politico del nuovo mezzo.

beccarisIl primo ad accorgersi del ruolo che poteva svolgere fu il Generale Bava Beccaris che vietò durante le proteste del maggio ’98, quando cannoneggiò la città, l’uso di “biciclette, tricicli, tandem o simili mezzi di locomozione” specificando che “i contravventori saranno arrestati e deferiti al Tribunale di guerra”, anche se si narra di ciclisti attivisti elettorali di Turati candidato nel V collegio già due anni prima.

Ferocemente ostili al velocipede i socialisti e in genere i progressisti che in particolare erano ostili alle gare, alle classifiche ritenute alternative agli ideali di eguaglianza e di solidarietà; questo nonostante all’estero si fosse già dato il via ad una organizzazione socialista del ciclismo (in Germania nel 1896 veniva fondata l’Associazione dei Ciclisti Rossi ARS: Arbeiter-Radfahrerbund Solidarität), il Partito Socialista Italiano, specie nella sua componente massimalista “faticò ad allontanarsi dalla convinzione che lo sport fosse una riproduzione in miniatura dei meccanismi della guerra capitalistica, funzionale a speculazioni industriali o nazionaliste e persino dannoso per il corpo”.

Scrive Pivato “l’antimodernità è una categoria dentro la quale stanno gran parte delle motivazioni che si oppongono alla bicicletta. Vi è la paura delle genti di campagna quando vedono per la prima volta il mostro meccanico; così come vi è il timore della chiesa per il ridicolo e la mancanza di decoro cui si espongono i preti che montano le due ruote. Dentro l’antimodernità ci sta anche la tutela della pudicizia che è alla base delle limitazioni e dei divieti posti alle donne. E così pure l’iniziale rifiuto del movimento operaio per la bicicletta considerata un prodotto del capitalismo borghese”.

volantino_biciIl clima lo descrive bene un volantino firmato “I giovani Socialisti, Mazziniani e Anarchici”, che iniziava con “Deplorate lo sport!” e continuava “lo sport, con l’attrattiva d’improvvisa fama e con la lusinga del subito guadagno dovuta quella a una malintesa valutazione dei valori umani, dovuto questo ad intenti di volgare speculazione, distoglie tante preziose energie giovanili da ben altri più veramente nobili e proficui intendimenti e dà sublimi ideali, e trattele nella sua orbita fatale, le asservisce vergognosamente alle losche mire di lucro e di dominio della classe capitalistica e borghese degli speculatori e dei grossi industriali lanciandole, brutale e inconscio strumento di réclame in una folle gara disperata, disseminata d’ogni sorta di fatiche, pericoli, morte”, quanto al giro d’Italia (il primo è del 1909) era “il miserabile spettacolo d’incoscienza e di sperpero di energie … tranelli che l’attuale sistema di governo plutocratico e borghese, ha teso alla inconsapevole dabbenaggine delle moltitudini” e terminava con un chiarissimo “Abbasso lo sport!”

Benito Mussolini, neodirettore dell’Avanti!  dichiara il 1° dicembre 1912, di voler cospargere di chiodi la via Emilia al passaggio dei corridori del Giro d’Italia. I giovani socialisti definivano i partecipanti al Giro “velocipedastri” e l’on. Giovanni Zibordi così descriveva il ciclista: “curvo come un punto interrogativo sul criminoso manubrio a corna di buffalo, concentra nei piedi tutte le sue facoltà fisiche e intellettuali” e aggiungeva “le corse sono colossali trucchi… i corridori non sono che degli anormali” (Avanti! 18 novembre 1909)

Nei consigli comunali i socialisti furono sempre in prima fila nel condannare l’uso della bicicletta come, ad esempio, Caldara che a palazzo Marino intervenne nel giugno e nel dicembre 1901 quando l’opinione pubblica milanese, era scossa per la morte del sarto De Caro morto dopo essere stato investito da un trio di ciclisti. 

Va detto che in generale i socialisti milanesi ebbero un pessimo rapporto con il trasporto cittadino almeno finché non elessero il sindaco, in una interpellanza dell’aprile 1910 a proposito degli incidenti per il traffico Turati, Filippetti, Majno e Bonardi parlano di “massacramento dei galantuomini”.

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Ovviamente non mancò la polemica tra massimalisti e riformisti, questi ultimi rappresentati da Bonomi che in un articolo sull’Avanti dal titolo “Lo sport e i giovani”, il 29 settembre 1910, attacca duramente la Federazione giovanile “sedicenti rivoluzionari che hanno proclamato la guerra allo sport … i contadini della pianura padana non sono più scalzi: vestono come i civili, leggono i giornali, vanno in ferrovia e, orrore! Si comprano la bicicletta. Eppure, questi contadini che leggono la Gazzetta dello Sport sono più rivoluzionari di voi. Infatti essi hanno saputo conquistarsi un tenor di vita più alto, tanto alto da poter appassionarsi allo sport. E voi, giovanetti pallidi della rivoluzione, quale rivoluzione avete compiuta?… La macchina (bicicletta ndr) si è democratizzata: costa poco, è a portata di tutte le borse, è diventato lo strumento di una nuova democrazia…non ci sono più sessi e non ci sono più classi. È il trionfo della bicicletta”.

Stravinsero i riformisti. Lo sviluppo dell’uso della bicicletta (nel 1914 ne circolavano ufficialmente nel paese 1.250.000) era incontenibile, così nell’ agosto 1913, ad Imola, venne costituita proprio dai giovani socialisti la Federazione Nazionale dei Ciclisti Rossi che poco dopo durante la settimana rossa, svolse un ruolo fondamentale per la diffusione delle notizie e nel coordinamento degli insorti. Non era che l’inizio, ma questa è un’altra storia.

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Col tipo pragmatismo riformista milanese a chiudere la questione arrivò sia la pubblicazione nella cronaca milanese dell’ Avanti! di molte “corse progressiste” come la Milano Erba, sia soprattutto la produzione in via Solari 27 dell’indispensabile pneumatico “Carlo Marx” e della bicicletta Avanti “velocipede popolare creato a favore delle masse operaie organizzate, costa poco e ha resistenza massima” prodotte dai Fratelli Cesarani, Officine Alcyon, di Caravaggio, esclusivista Italo Lappi in Corso Venezia 63.

Walter Marossi

Riferimenti

Eleonora Belloni https://www.novecento.org/la-storia-dello-sport/bicicletta-e-storia-ditalia-1870-1945-la-modernizzazione-su-due-ruote-7168/

PIVATO Stefano (1992) La bicicletta e il sol dell’avvenire: sport e tempo libero nel socialismo della Belle époque. Ponte alle Grazie, Firenze.

http://www.andreagaddini.it/ciclisti_rossi.html 

SBETTI Nicola (2015) Giochi diplomatici. Sport e politica estera nell’Italia del secondo dopoguerra (1943-1953).

 



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  1. Chiara VogliattoDavvero interessante, istruttivo ma anche divertente. Adesso la bici è diventata un simbolo progressista proprio perché un po' vecchio stile e un po' fané. E sono invece i reazionari a voler investire i ciclisti (quel direttore del Giornale di cui non ricordo il nome). I tempi cambiano....
    27 Settembre 2024 • 14:30Rispondi
  2. MaurizioSì, dobbiamo ringraziare sempre Walter Marossi per queste incursioni storiche, spesso sorprendenti. Cossì
    1 Ottobre 2024 • 11:03Rispondi
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