16 maggio 2023

AAA CERCASI IDENTITÀ DEL CIBO (AUTARCHICO)

Sedersi a tavola riflettendo


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Si è appena conclusa, l’11 maggio, a Fieramilano l’expo TuttoFood ‘International Food Exbition’ (ma Mostra del Cibo Italiano non sarebbe stato maggiormente consono per l’identità del cibo italico?), una golosa vetrina dell’agroalimentare nazionale che vale 60 miliardi di export (2022)  ed è penalizzato per 120 miliardi dal fake food (dati Coldiretti).

I quattro giorni della manifestazione hanno portato in scena numerosi showcooking illuminati dal bagliore di numerosi chef stellati (dai Cerea a Davide Oldani e Carlo Cracco per l’alta cucina, da Gino Sorbillo a Civitiello per la le pizze).

Dati e luci accecanti che riescono però a nascondere solo in parte la realtà nazionale sempre più alle prese con i rincari delle materie prime, costi di produzione e dell’inflazione che erode la possibilità di spesa degli italiani.

TuttoFood ha portato in scena solo l’ottimismo e il crescente ‘sovranismo alimentare’ orchestrato dal nuovo Ministro dell’Agricoltura e, per l’appunto, della ‘sovranità alimentare’. Un grande coro di voci che mostra sicurezza, sorrisi e inni alla “qualità” delle materie prime italiane e del “saper lavorare e trasformare i prodotti agricoli”.

Tutto bene, allora? Quasi.

A parte le massicce e crescenti importazioni di materie prime (dal grano alla carne, dai mirtilli alle nocciole) e i tanti divieti di ricercare e sperimentare ma non quelli di importare, ci si dimentica spesso che il cibo è un elemento culturale e dunque espressione di un popolo che a sua volta è espressione dell’ambiente in cui vive (e dal quale è ospitato).

Il cibo è un atto agricolo, e per tutelarne la qualità si dovrebbe, per prima cosa,  insegnare  il sapere contadino arricchito da quello scientifico, ad esempio introducendo l’educazione alimentare nelle scuole, trasmettendo il rispetto per la natura e gli antichi saperi che tutelano e trasmettono anche i sapori. Il buon cibo è infatti la risultante del buon clima e di una buona natura.

Prendiamo, ad esempio, la pasta. A TuttoFood l’amministratore di un grande gruppo pastaio ha affermato che “la qualità si fa con la tecnologia: più si investe in tecnologia e più si fa qualità della pasta. E noi siamo uno dei pastifici più moderni al mondo” (ilSole24ore, 10 maggio).  Dichiarazione ad effetto che non tiene però conto del fatto che alcuni disciplinari di produzione, come quello della pasta di Gragnano, prevedono una lenta essiccazione, fino a 60 ore. Quindi il vero segreto della qualità della pasta “fatta in Italia” (in obbedienza al bando sugli inglesismi) non risulta essere la qualità del grano (spesso d’importazione) e neppure la trafilatura, bensì una corretta e sapiente essiccazione.

Già, perché a Gragnano sin dal XVI secolo la pasta veniva essiccata su tavoli in legno posti in piazza Trivione, così che il particolare microclima creato dall’aria calda e umida proveniente dal mare potesse rendere unica questa pasta. La tecnologia (caloriferi o essiccatori statici) è semmai un uso moderno per standardizzare i prodotti industriali, ma manca della mano sapiente dell’uomo e dell’unicità dei microclimi italiani che rendono unici molti prodotti artigianali. Come il salame di Varzi che, oltre alle materie prime, gode dell’unicità del particolare microclima creato dall’incontro tra l’aria fresca montana della Valle Staffora e la brezza marina ligure.

Per meglio tutelare la sovranità alimentare tricolore la via quindi, più che limitare ricerca e innovazione e vietare i Novel food (accettati nel resto del mondo, vale la pena di ricordarlo, composto da più di 8 miliardi persone) è di concentrare risorse e attenzione sull’insegnamento del sapere alimentare nazionale. Oltre alla tutela dell’ambiente, ingrediente base del cibo nazionale e Casa comune celebrata da Papa Francesco nell’Enciclica Laudato sii.

E a proposito di cambiando climatico, l’anno prossimo, in Italia avremo meno riso, colpa della mancanza d’acqua.

Marco Ceriani

Food Hero

 



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