21 marzo 2023

IL PROBLEMA DELLA CASA DA MASSARANI A MARAN

La storia del'urbanistica milanese a cavallo del secolo


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“È un beneficio e un conforto per la classe lavoratrice quello sul quale oggi si invocano le vostre deliberazioni “ così si apre la relazione dell’assessore sul tema delle case per gli operai e ancora “ […] Quantunque l’incallimento delle pigioni, e in ispecie delle più umili, non siasi fra noi manifestato colla rapidità che nei grandi centri esclusivamente … è tuttavia anche per noi un fatto certo e continuo, il quale ha bensì le prime radici in quella stessa condizione di cose …vogliamo dire nell’incremento della popolazione e nel deprezzamento del numerario ma provoca comunque uno squilibrio cui non fa fronte abbastanza, benché sia in generale cresciuta la misura delle mercedi. L’istessa cura posta alla pubblica igiene e il sentimento del decoro cittadino, fatti più vigili in ragione della progredita civiltà, sotto questo aspetto sembra che peggiorino il male; perché lo sgombero dei malsani abituri , il riordinamento dei quartieri più popolosi e tutte senz’altro le riforme edili sottraggono ai meno agiati e ai poveri le loro abituali dimore, ne possono supplirvi le costruzioni che risorgono sotto il martello demolitore foggiate la massima parte secondo richieste di un tenore di vita più dispendioso . Dallo sconcio economico risulta poi, come sempre un triste influsso sulle condizioni morali; perché o il lavoratore si sobbarca un affitto che eccede i suoi mezzi e scompagina … l’ordine e l’avvenire della famiglia o subisce la dura necessità attendandosi per così dire in qualche sordido ricetto e il tedio della ingrata dimora lo aliena dalla vita domestica e lo spinge in braccio a ignobili dissipazioni.”

 In pratica l’assessore Tullio Massarani,con aulico linguaggio dice che si stanno espellendo dalla città poveri e giovani coppie, si costruisce per rivendere o affittare a prezzi irraggiungibili ai più anche con la scusa di case più belle, ecologiche e moderne. Chiede pertanto al consiglio un voto per invertire questa tendenza e dare il via libera a nuove costruzioni nel “ rispetto del cittadino libero e responsabile, consapevole di se stesso, dei propri diritti e dei propri doveri; che nella sua coscienza, nella sua energia, nel suo pertinace volere, pone il cardine di ogni miglioramento e d’ogni progresso…” non si tratta di “mescergli lo scoramento con l’elemosina o l’ebbrezza con le lusinghe, ma suscitare le sue forze, armarle contro gli ostacoli, ristorarle dalle cadute e far lui quanto è più possibile, arbitro e autore delle sue sorti…” Pertanto, il comune deve intervenire e non restare passivamente in attesa degli eventi destinando aree e facendo convenzioni, riducendo la spesa per altre opere pubbliche di rappresentanza e per sovvenzioni a pioggia.

Sembra Pierfrancesco Maran ma non è. È un suo predecessore a quell’incarico e per la precisione Tullo Massarani, il consiglio comunale è sempre quello milanese ma di qualche anno fa per la precisione l’intervento è del 1° agosto 1861.

La delibera fu approvata dal consiglio e fu ceduta dal comune alla “Società edificatrice di case per gli operai, bagni e lavatoi pubblici” un’area di circa ottomila metri quadrati tra lo stradone di Santa Andrea e la strada al Naviglio di San Marco, in una zona tra la zecca, la manifattura di tabacchi gli stabilimenti Sessa e Sala e tra i cantieri delle ferrovie di Porta Nuova e le officine della fonderia Elvetica. Vennero costruiti asili, bagni, lavatoi, cucine, due grandi caseggiati e 66 casette monofamiliari.

Era un atto politico che seguiva le indicazioni già contenute discorso d’insediamento sindaco Antonio Beretta che lamentò la vetustà di molte strutture urbanistiche e degli spazi cittadini, e la necessità di lavori di rinnovamento:  “Non ostante che la città di Milano abbia dovuto in questi ultimi anni accrescere il suo demanio, è rimasta addietro di quasi tutte le altre città del suo rango e di molte altre minori nei miglioramenti edilizi, nella costruzione di opere reclamate dalla comodità generale, dall’igiene e dal decoro, quali sono i pubblici macelli, i fabbricati per la vendita delle erbe, un mercato del grano, fontane, bagni, lavatoi pubblici, il cimitero monumentale, l’allargamento di importanti corsie ed una piazza del Duomo consonante alle magnificenze della nostra Metropolitana”.

La novità della delibera Massarani stava nel fatto che non si parlava solo di grandi interventi già ben identificati dalla prima giunta (gli unici sventramenti che in questi anni si fecero coinvolsero la costruzione di vie a funzione rappresentativa e monumentale) in primis la sistemazione della Piazza del Duomo, ma si discuteva del futuro della città. La maggioranza del consiglio era d’accordo sul fatto che, per parafrasare Casati,  Milano non doveva essere scambiata per “Cascina de Pomi”, cioè, fuor di battuta, che Milano non avrebbe potuto rivendicare un ruolo egemone nel nuovo Stato se non avesse perso quel suo carattere di paesello cresciuto, con la sua disposizione urbanistica risalente all’ancien regime e un poco ammodernata da Napoleone, senza quelle “opere edilizie” che, come lamentava in Consiglio comunale l’assessore Alessandro Cagnoni, persino le città più piccole possedevano.

Massarani tornerà più volte in consiglio comunale sul tema delle case per gli operai ed anche sul tema degli infortuni del lavoro in edilizia.

Piccola per estensione era la Milano degli anni Sessanta, rispetto alle capitali europee, Londra, Parigi, già metropoli, ma anche rispetto a Napoli, per lunghi anni la città più popolosa d’Italia. Gli abitanti erano circa 130.000 mila armonicamente distribuiti su 794 ettari in 5200 case, ma concentrati nell’area centrale, delimitata dai Navigli, mentre oltre la fossa dei Navigli e fino ai Bastioni poche sono le case e tanti gli orti.

Cagnoni parlava a suocera perché nuora intendesse cioè faceva capire alle forze nuove del mondo degli affari che un loro intervento finanziario per ammodernare la città avrebbe giovato prima di tutto a loro.

Il modello resta la Parigi degli sventramenti di Haussman, direttamente evocata da Cagnoni. Quella che può essere considerata la “sinistra” del Consiglio, pensava invece che l’Italia non fosse ancora fatta, e che, invece di pensare ai commerci e gli abbellimenti, si dedicassero tutte le spese per gli armamenti.

Ma i finanziamenti dei privati non potevano certo coprire tutte le spese, e neppure si poteva attendere i loro tempi. Le ricette per trovare fondi, a dispetto delle creatività degli amministratori, erano sempre in numero limitato, e i fondi si potevano ridurre a due: prestiti più introduzione di nuove tasse. Così fece la giunta Berretta: il Comune chiese un prestito di 16 milioni e introdusse una nuova tassa, il cosiddetto “dazio di consumo”.

Ma per imporre questa tassa occorreva l’autorizzazione del Ministero, che tardava a venire, mentre i Comuni di Piemonte, Toscana, Marche, Umbria, Campania, Sicilia la ottenevano. Tardava tanto, che nel 1862 la giunta minacciò di dimettersi se fosse passato ancora tempo, l’antipatia tra governo centrale e comune di Milano ha origini antiche.

Nel frattempo, il Comune navigava a vista. Un amministratore del tipo creativo era senz’altro Luigi Sala, assessore alle Finanze, che introdusse le seguenti fonti di finanziamento: tasse su cavalli di lusso; aumento dell’imposta sull’estimo; addizionale sull’importo della tassa di rendita degli edifici; idem per le arti e commerci. Molti mugugnarono, e videro le misure come eccessivamente “di sinistra” per il loro pesare sulla “possidenza”.

L’intervento principale della prima sindacatura in materia di urbanistica fu la decisione di trasformare la futura via Vittorio Emanuele dal Duomo alla Scala in una galleria, abbandonando la maggior parte dei progetti presentati che prevedevano portici e vetrate, ispirati dall’esempio parigino dei passages.

 Come sempre, non tutti erano d’accordo. In Consiglio comunale, il conte Pietro Gavazzi, ad esempio, riteneva troppo costoso il progetto di una galleria, ma il 7 febbraio del 1861 la Commissione presentò un nuovo bando di concorso per il progetto della via: la Galleria era compresa. A questo punto, fu il famoso medico e scienziato positivista Paolo Mantegazza, esperto di questioni igieniche, ad opporsi, proprio per ragioni di salubrità, mentre il severo Carlo Tenca, relatore per la commissione agli studi, stigmatizzò gli “abbellimenti” e le “luminarie” invitando gli amministratori a pensare a “educare le nuove generazioni”.

Assegnato l’appalto della costruzione alla società inglese City of Milan Improvements Company Limited, la cerimonia per la posa della prima pietra avvenne il 7 marzo 1865. I lavori, escluso l’arco trionfale d’ingresso, vennero completati in meno di tre anni, ma nel 1869 fallì la società appaltatrice, il che obbligò il comune a rilevare la Galleria per la cifra di 7,6 milioni di lire dell’epoca.

La Galleria fu all’origine della disfatta del sindaco Beretta.

Per allargare la piazza del Duomo e per costruire la galleria Vittorio Emanuele, il Comune aveva dovuto infatti acquistare un gran numero di case intorno, alcune da distruggere, altre da restaurare: per fare ciò, l’assessore Marzorati cognato del sindaco aveva speso ventun milioni.

Ma come notò “La Gazzetta di Milano” diretta da Raffaele Sonzogno tra le acquistate ve ne erano due di proprietà dell’assessore che si era fatto pagare dal comune diversamente da tutti gli altri venditori, subito “in buoni denari sonanti d’oro o d’argento”, e non in obbligazioni.

La giunta si dimise, si andò ad elezioni e il Marzorati fu trombato rendendo impossibile la rielezione di Beretta che cercò nel rendiconto di congedo di salvare almeno l’onore, rivendicando di aver: “Creato il servizio della sorveglianza urbana, organizzata la polizia stradale, aperti nuovi e comodi mercati, eretto sui più recenti modelli un grandioso macello per mezzo di compagnia concessionaria, applicati i sistemi più perfetti allo spurgo dei pozzi neri, disciplinato il movimento dei mercivendoli e la concessione dei pubblici spazi, riordinato il servizio delle vetture pubbliche, estesa a tuta la città la illuminazione a gaz con tale riforma delle prime stipulazioni da accrescere a un terzo il numero delle lampade senza aumento di spesa anzi ottenendo ribassi dei prezzi anche in pro dei privati, riformate e ricondotte a civile parità e dignità le pompe funebri, compilato col concorso di sapiente commissioni un intero codice edilizio-igenico […]

Le prime nostre cure furono rivolte vaneggiare le condizioni materiali del popolo e insieme con esse la sua moralità. Abbiamo pertanto promossa la fondazione di una società edificatrice di case per operai, la quale unicamente intendendo a scopo filantropico fornisce a quest’or di salubri quartieri per assai modico prezzo ben 1400 individui raccolti in 300 famiglie […] ed abbiamo, per quanto era noi, caldeggiata e favorita la istituzione di società opere di mutuo soccorso, di associazioni creative e di previdenza, e di una banca popolare […] Di pari al materiale benessere abbiamo assalente dato opera a sospingere innanzi l’istruzione popolare […] mercé l’ampliazione delle scuole, la scelta di buoni docenti rialzati dall’antico avvilimento con efficaci studi e congrue retribuzioni, miglior salubrità delle aule scolastiche, la costruzione di quei nuovi edifici che destinati alla crescente generazione sono i veri e soli palazzi del popolo, la fondazione di scuole serali e festive, di sale di lettura, di biblioteche circolari, di scuole superiori, di un convitto per allieve maestre, a istituzioni di corpi popolari di musica e di canto corale, la erezione di un grandiosa palestra di ginnastica e, quel che vale più di ogni cosa, l’amore allo studio gagliardamente suscitato e alimentato perennemente nelle classi laboriose” .

In modo particolare Beretta si soffermò sulle opere urbanistiche, il punctum dolens che aveva provocato le sue dimissioni: “Abbiamo provveduto ad aprire nei quartieri per lo innanzi meno frequentati ma dalla prossima era alla stazione ferroviaria destinati a naturale e rapido incremento, novelle vie che già pigliarono importanza di arterie vitali e videro sorgere sui loro fianchi, testimonianza non dubbia delle opportunità, edifici privati […] Scomparse in gran parte le insalubri e luridi cave che li deturpano, acquistate tutte le altre, ad eccezione di pochissime […] E quasi pegno di tanta mole futura già sorge mirabilmente compiuta in poco più di due anni la grandiosa Galleria Vittorio Emanuele, monumento di gratitudine votato fin dai primi giorni della italiana redenzione al re liberatore, tale, non ci peritiamo dall’affermarlo, per vastità di dimensione e per copia e splendore di ornato, di non temere confronti in Europa” . Insomma, allora come oggi la Galleria era l’orgoglio della città.

Negli anni della sua giunta la popolazione era cresciuta da 184.920 del 1860 a 205.751 del 1867. Il numero di allievi nelle scuole comunali era raddoppiato, ma quasi triplicato era il numero delle aule e dei docenti. Triplicato numero di locande e raddoppiato quello delle bettole; gli omnibus erano passati da 12 a 127.

Nell’ottobre 1867 arriva un commissario il primo di una lunga serie nella storia della città  che subito promulgò nuove elezioni.

Si presentarono due liste ispirate da due giornali che erano i veri partiti del tempo la lista della “Perseveranza” moderata che portò in Comune 38 eletti, 27 quelli del “Secolo” più liberali.

Ma non si pensi di essere già ad una polarizzazione politica della vita cittadina: alcuni candidati si presentavano in entrambe le liste, modo sicuro per essere eletti. Ed in due liste si era presentato Giulio Belinzaghi un finanziere, i cui affari spaziavano in tutto il Regno, non senza ombre (come aveva appurato, pur senza nulla provare, l’inchiesta parlamentare del 1864 sulla Società delle ferrovie meridionali), deputato dei Costituzionali (la cosiddetta Destra storica) per il collegio di Pizzighettone, vicino a Cremona . Conservatore e ricco ma ben visto dai gruppi democratici e progressisti che poteva però contare sul vantaggio aggiunto di essere un self made man. Un uomo del fare, oggi si direbbe un buon amministratore di condominio che nessuno poteva prevedere governerà la città per vent’anni.

Anche con Belinzaghi la questione dello sviluppo urbanistico resta al centro del dibattito in consiglio comunale; se la giunta riteneva che a Milano si vivesse bene, persino nel suburbio, che intanto si era caricato di case dei lavoratori, un giovane consigliere comunale, l’ingegnere Giovan Battista Pirelli, lamentava invece la situazione della periferia, senza strade che la collegassero all’esterno e al centro e priva di illuminazione. Nei fatti tra la indifferenza della giunta e qualche sporadica denuncia, la città cresceva spontaneamente, senza programma alcuno.

Le case economiche che nascevano erano a stretto contatto con le risaie, alimentando così infezioni e malaria: “A Rocchetto, alle Case Nuove, a Gratosoglio, alla Conca Fallata, ad Annone, siamo sempre nel Comune di Milano – diceva la relazione per il piano Regolatore presentata nel 1876 – quantunque lontani più di 5 chilometri dalle sue mura, ed abbiamo le scuole comunali, gli Asili, la Sorveglianza municipale e le tasse come nell’interno, a nulla di tutto ciò concorre ad alleviare quelle popolazioni dai fatalissimi danni delle risaje. Queste, specialmente nella stagione estiva, emanano esalazioni perniciosissime e di un carattere tanto maligno da ridurre in poco tempo in fin di vita, non solamente donne e fanciulli, ma anche uomini di tempra robustissima”.

I possidenti milanesi, che come quasi tutti quelli di altre regioni temevano l’industrializzazione, ritenevano poco proficuo un futuro di Milano come città industriale. L’ingegner Giuseppe Colombo, consigliere comunale e pure imprenditore, perché fondatore della Edison, ebbe occasione di dire: “Concentrare in una città una massa ingente di operai offre grandi percoli. Il lavoro a domicilio è una forma industriale che giova favorire, perché è una garanzia di morale e di pace, due elementi di cui una città popolosa ha un vivo bisogno, in quest’epoca di rivoluzione economica e sociale”

Tra gli anni settanta e gli ottanta l’iniziativa privata edile, senza attendere deliberazioni o piani del Comune, aveva nel frattempo intrapreso numerosi lavori di sventramento e di costruzioni di nuove edifici, soprattutto attorno alla Stazione Centrale e più di recente all’ex-Lazzaretto (nonostante si fosse cercato di salvarlo per il suo valore storico) venduto dagli istituti ospedalieri alla Banca del Credito italiano.

 Nel 1881 Milano vide l’inaugurazione dell’Esposizione nazionale industriale, che costrinse la città a guardarsi allo specchio. Gli abitanti erano 321.839, le case 6.604 e le abitazioni 82.930. Nel circondario esterno, gli abitanti erano aumentati dal 1873 di 45.000 unità e vi erano state costruite 500 case. Più della metà dei cittadini viveva in abitazioni di una o due stanze mentre solo 56.000 abitanti vivevano in case di più di quattro stanze. Gli analfabeti erano 88.510 e nel Circondario esterno costituivano quasi la metà della popolazione. Del resto, il circondario esterno era anche definito socialmente, perché vi abitavano in larga parte operai, per lo più immigrati. Risale a quel periodo la definizione di Milano come “capitale morale”: l’espressione viene attribuita a Ruggero Bonghi, giornalista napoletano che in quegli anni dirigeva il La Perseveranza.

Numerosi consiglieri, precursori della decrescita felice, anche della maggioranza, temevano senza nasconderlo, uno sviluppo selvaggio che avrebbe leso per sempre il volto estetico di Milano. Cosi ad esempio Gerolamo Sala, consigliere comunale per vent’anni: “Milano, città cospicua e priva affatto di dintorni che offrano qualsiasi amenità, è per nulla curante, non già di moltiplicare i pubblici passeggi, ma nemmeno di conservare i pochissimi e brevissimi di cui è dotato, quel tanto di bellezza che pur avevano. Milano non ha che la cerchia antica dei bastioni ed un bellissimo, ma piccolo e racchiuso pubblico giardino. Orbene, col Cimitero si ingombra la parte più amena del nostro Comune e si rattrista la parte più frequentata e gradita. […] Io penso sempre al rimorso artistico che debbono prove coloro che, avendolo potuto, non hanno impedito un deturpamento cittadino, quale quello de’nostri bastioni e quale l’altro dei nuovi edifici che si lasciano sorgere addossati all’Arco della Pace”.

A cosa si riferiva Sala? Nell’aula del Consiglio, tutti dovettero intendere subito: si alludeva all’ottimizzazione dell’area che da Foro Bonaparte andava all’Arco della Pace e che comprendeva la piazza d’Armi e una larga parte dello stesso Castello, adibito allora a corpo militare. A capo dell’operazione stava la Società Fondiaria milanese, guidata da Antonio Allevi, ex patriota e perseguitato politico dagli austriaci, che dopo l’unità aveva diretto la “Perseveranza” cioè il giornale partito dei moderati ed era stato eletto in Parlamento per il collegio di Barlassina.

Il progetto di Allevi si prefiggeva nientemeno che costruire “una città nuova” per la precisione si parlava di una nuova Milano, gli accordi preliminari erano stati definiti stringendo contatti direttamente con i propri amici nei ministeri (la proprietà era un intreccio tra demaniale e comunale), senza interloquire con l’amministrazione locale che pure avrebbe dovuto intervenire economicamente, che infatti venne informata solo dall’opposizione e con notevole ritardo.

Il  progetto dei nuovi quartieri di Piazza d’Armi prevedeva  di costruire quartieri signorili con giardini, assieme a una lunga strada che collegasse l’Arco della Pace al Duomo passando per il Castello che molto semplicemente doveva essere abbattuto al 90%.

Mentre si discuteva di un futuro Piano Regolatore il l Comune approvò il progetto anche perché secondo alcuni consiglieri il Colombo, ad esempio, così si scongiurava la massima iattura cioè trasformare Milano luogo dei commerci e delle finanze in una “città operaia”.

Giulio Prinetti consigliere comunale che sarà poi ministro dei lavori pubblici e degli esteri così descrive la situazione: “l’incremento edilizio è così rapido e affastellato che se non è diretto con acume ed energia esporrà il comune dio sa a quali spese in avvenire, quando sarà necessario demolire ciò che ora si lascia fare sconsideratamente” concludendo con una frase spesso ripetuta nel secolo successivo: “ manca un principio direttivo della giunta, manca un adeguato concetto dell’avvenire riservato a Milano.”

 Ad opporsi un gruppo di consiglieri tra cui il  Massarani e alcuni cittadini che ottennero dal governo nazionale un vincolo sul castello in pratica facendo saltare tutto.

Il futuro sindaco Mussi fu più pesante alludendo ad interessi privati in atti di ufficio, il Belinzaghi offeso minacciò le dimissioni forse convinto che il tutto si sarebbe chiuso con qualche scusa, ma così non fu e il 18 aprile 1884, diede le dimissioni definitive, imputando all’ordine del giorno proposto da Massarani di aver troncato la fiducia tra consiglio e giunta.

Quali fossero gli interessi privati non si discusse mai in consiglio né altrove, ne scriverà solo Francesco Saverio Merlino che nel 1890 dà alle stampe a Parigi un pamphlet di “controstoria”: L’Italie telle qu’elle est. che non ha grande fortuna in Italia: sarà infatti tradotta e pubblicata la prima volta molti decenni più tardi. Merlino afferma, nel capitolo la Greppia che Belinzaghi aveva investito direttamente due milioni nella speculazione e che le dimissioni erano state finte, (il libro è stato ripubblicato da M&B Publishing).

In effetti nel 1889 Belinzaghi sarà nuovamente sindaco e morirà in carica.

I primi due sindaci della città si dimettono e le prime maggioranze salteranno quindi per questioni urbanistiche, non male per la capitale morale.

Resta da ricordare chi era Tullo Massarani  con cui abbiamo cominciato e finito: patriota risorgimentale, consigliere provinciale per ventotto anni, consigliere comunale per oltre 30, assessore, deputato, senatore (il primo Senatore ebreo nel Regno d’Italia), scrittore, giornalista, fondatore della SIA (poi SIAE, Società Italiana degli Autori ed Editori), sostenitore delle politiche per limitare il lavoro delle donne e dei fanciulli, morì a Milano nel 1905. Liberale progressista (fu il patrocinatore della causa “femminista” di Anna Rosenstein  (Kuliscioff), alla quale, pur essendo laureata in medicina, era stata preclusa la possibilità di far pratica in ospedale,  secondo le sue ultime volontà i suoi beni passarono alla scuola professionale femminile di Milano, fondata da Laura Mantegazza Solera.

Il nipote che portava il suo stesso nome e la sorella Olga furono assassinati dai nazisti del Primo Battaglione SS del secondo Reggimento della Divisione Corazzata Leinbstandarte a Stresa durante i rastrellamenti del settembre 1943, i loro corpi non furono mai ritrovati.

Walter Marossi

 



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  1. Pietro VismaraInteressante, ma Maran cosa c'entra?
    21 marzo 2023 • 23:00Rispondi
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