24 gennaio 2023
17 MILIONI DI ITALIANI NON VOTANO
La crisi della democrazia
L’Italia, che sia patria, nazione o paese, non si fa sempre capire, troppo complicata, sommersa, oscura e omertosa anche all’analisi dei più accurati saggi, mentre i ritratti e le interpretazioni che offrono romanzi, film, canzoni sono sempre parziali rispetto ad una realtà che vada oltre il quartiere, la famiglia, il clan, addirittura la coppia. Non vivono in Italia Clint Eastwood o i fratelli Cohen, non prospera più in Italia quella letteratura di strada o di fabbrica che molto avrebbe ancora da raccontare (sull’esempio della no-fiction novel alla Truman Capote che tanto, ad esempio, ci aveva raccontato dell’America) e pure un romanzo come “Gomorra”, un fenomeno editoriale che si è perpetuato negli interminabili rivoli dei serial televisivi, aggiunge qualcosa ma poco alle prevedibili cartoline della malavita napoletana. Sembrano lontanissimi i giorni e gli sguardi di uno scrittore come Bianciardi, celebratissimo oggi a cent’anni dalla nascita, ma tra i tanti dimenticati.
L’Italia però è stata in questi ultimi mesi radiografata da una infinità di sondaggi e infine dal sondaggio più importante, le elezioni. Ma che cosa ci possono insegnare i numeri finali, che cosa possiamo dedurre dai gesti, dai movimenti, dalle stesse parole del nuovo ceto governante? Nuovo ceto governante eletto certo nel rispetto della democrazia, ma non proprio rappresentativo, se è vero che il partito del “non voto” (astensioni in maggior parte più le schede bianche in modesta percentuale) ha largamente superato la vincente coalizione di destra, ha più che doppiato il primo partito (FdI) e ancor più il secondo classificato nella graduatoria finale (Pd). Diamo i numeri: diciassette milioni di non-elettori contro 12 milioni di elettori della destra, quasi il quaranta per cento dell’elettorato contro meno del ventisette per cento: un abisso, contasse qualcosa dal punto di vista della ripartizione dei seggi. Significa che, tra i votanti, solo un italiano su quattro ha espresso il proprio sostegno a chi ci dovrebbe guidare.
Siamo vicini ad una nuova verifica. Si voterà in Lombardia e nel Lazio, dodici milioni di elettori: “Speriamo che si ricordino di votare”, ha commentato il presidente uscente lombardo.
Se si traccia una linea dal 1948 ad oggi, nel primo tratto, fino al 1976, si resta sempre al di sopra del novanta per cento: poi è una corsa (con una lieve ripresa nel 2006, all’ennesimo confronto-scontro tra Prodi e Berlusconi: oltre l’83 per cento) in discesa, un precipizio…
L’astensionismo costituisce ovviamente una forte ragione di preoccupazione rispetto al grado di legittimità del sistema rappresentativo. Soprattutto dà il senso di una regressione, di una lacerazione tra il paese, il “popolo”, le persone da una parte, e, dall’altra, le istituzioni, le assemblee legislative, i cosiddetti “corpi intermedi” , gli stessi strumenti della partecipazione… Il “voto”, ciò che una volta era percepito come un diritto faticosamente conquistato e un dovere nel rispetto dello Stato, nel segno dell’appartenenza alla Repubblica nata dalla Resistenza, è diventato per molti un fastidioso appuntamento, che è possibile evitare (dall’invito a raggiungere le spiagge rivolto da Bettino Craxi in occasione di un referendum sulla scala mobile), perché non c’è sanzione, è diventato un’incombenza che nella confusione della politica suscita troppi dubbi o, infine, una occasione di protesta (ma all’epoca di Tangentopoli, dal 1992 in avanti, il calo dell’affluenza era stato tuttavia contenuto: si rimase comunque sopra l’ottanta per cento). O qualcosa che si può banalmente ignorare.
Seguendo una riflessione di Riccardo Cesari, professore ordinario di Metodi Matematici per l’Economia e le Scienze Attuariali e Finanziarie dell’Università di Bologna, riflessione proposta da lavoce.info, “finisce per partecipare col proprio voto alla vita democratica solo chi non ha gravi problemi economici e chi, pur avendoli, crede nella capacità della politica di dare risposte efficaci alle proprie difficoltà”. E ancora: “Quando le ristrettezze economiche personali e famigliari sono sovrastanti o l’esperienza pregressa alimenta sfiducia verso il ceto politico, la scelta della non partecipazione tende a diffondersi anche in un paese, come l’Italia, con una tradizione partecipativa elevata… l’aumento del disinteresse verso la politica (persone che non si informano mai di politica italiana) è generale, ma lo si registra in particolare tra i disoccupati rispetto agli occupati e tra i meno scolarizzati rispetto ai laureati”.
Conclusione: “La libertà garantita dalla democrazia può perdere la sua forza e la sua capacità attrattiva quando povertà e diseguaglianza, anziché ridursi, si diffondono nella società”.
E’ una analisi utile, che lascia tuttavia in disparte il peso della politica, delle forme della politica, dei partiti, crollate le grandi immagini, le grandi ideologie, gli orizzonti, quelli proposti dalla Chiesa, quelli indicati dalla tradizionale sinistra italiana. Se la “politica” si identifica nella “amministrazione”, la frattura tra chi vorrebbe esprimere la propria individualità politica e chi, appunto, “amministra” diventa incolmabile. Come può guardare uno qualsiasi di noi, per quanto colto e attento, in direzione dei palazzi di Bruxelles o di Strasburgo o di Roma? O in direzione di uno dei nostri più o meno modesti municipi? Eppure una politica ridotta all’amministrazione tecnica dell’esistente (ricordiamo Monti? Ricordiamo Draghi?) è stato l’unico antidoto che il sistema dei partiti ha messo in campo per affrontare la crisi, identificando gli attori politici con gli attori economici, dismettendo in pratica ogni altro tipo di discorso.
Ma un’altra emergenza democratica si esprime nel mondo del lavoro, perché la fine di Mirafiori o della Falck, della Pirelli o della Breda… ha cancellato ogni occasione di organizzazione operaia e di formazione. La conflittualità si consuma in episodi (vedi la Whirlpool di Napoli) che raramente superano la misura locale… Quanto pesa la parcellizzazione del lavoro, persino la misura “domestica” del lavoro, smart working oppure home working, prima imposta dal Covid e poi utilizzata quale nuova modalità di sfruttamento o comunque di superamento-aggiramento delle regole… quanto pesa la precarizzazione nel ridimensionamento della dimensione collettiva del lavoro e della opportunità di un progetto condiviso?
La perdita di una “coscienza politica” significa anche perdita della capacità di reazione di fronte ai misfatti, non tanto della “politica” quanto compiuti approfittando della “politica” (da Tangentopoli, corruzione via via metabolizzata, fino al recentissimo Qatargate, occasione di propaganda strillata ma non certo di iniziativa critica).
Si dovrebbe, per capire o almeno per nominare le ragioni di quell’esercito di diciassette milioni di italiani, aggiungere molte cose, molte relative alla difficoltà dell’insegnamento e ai vuoti dell’apprendimento, molte, conseguenti, relative ad una sfera “sovrastrutturale”: l’informazione, quindi i giornali e tutto ciò che si trasmette via web e quindi la televisione, l’intrattenimento e quindi ancora la televisione e il web, per i modelli consumistici proposti, per i temi privilegiati, eccetera eccetera. Il degrado della cultura sembra aver seguito quasi in parallelo la caduta della partecipazione politica (e quindi della partecipazione al voto). Denunciava uno studioso del valore di Tullio De Mauro che l’ottanta per cento dei nostri concittadini in età lavorativa non è dotato di “effettive capacità di lettura, comprensione e calcolo” (anche su Internazionale). Paolo Sylos Labini nel suo “Saggio sulle classi sociali” definiva gli italiani “un popolo di semi analfabeti”. Se poi questo “popolo” non teme ore di coda al freddo per acquistare l’ultimo modello di Adidas (è accaduto a Milano) o si entusiasma seguendo le esibizioni di “Ballando con le stelle” perché meravigliarsi? Ma le responsabilità delle politica sono enormi e ancora più gravi e “autolesioniste” sono quelle della sinistra che dall’inseguimento delle strategie e dei piani altrui (e non parliamo solo di modelli liberisti, ma anche banalmente di concezioni della scuola, della cultura, dello spettacolo) ha avuto e ha tutto da perdere.
Oreste Pivetta
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