24 gennaio 2023

VERSO LE PRIMARIE PD

Fine dell'inizio o inizio della fine?


Progetto senza titolo (6) (1)

Appena adolescente, il partito democratico è già vecchio e rugoso.

Ingrigito anche per i suoi dirigenti, che, in preda ad un disorientamento senza requie, rimettono mano a nome, manifesto, programma, visione, ciascuno con un proprio intendimento o tornaconto. Nato per offrire un nuovo inizio, vive una crisi acuita dall’esito elettorale ma ben grave anche prima, al punto da chiamare al suo capezzale non diciamo un papa straniero, ma insomma un “peacekeeper” come Enrico Letta, estraneo da almeno un quinquennio alla faida interna che ha falcidiato diversi segretari, ultimo il povero Zingaretti che se n’è uscito gridando che si vergognava del suo partito. Non è bastato l’algido Enrico, cui in diversi addebitano il flop elettorale per insipienza e mancanza di leadership, a guarire il malato. Lo ha “stabilizzato” per qualche tempo, senza risolvere i mali di fondo.  Forse non poteva fare altro, certo le responsabilità sono diverse, ma alla fine questo è il risultato.

 “Un amalgama mal riuscito” per D’Alema già nel 2008, scontento della piega che aveva preso la vicenda. Avrebbe preferito, e molti con lui, un’evoluzione socialdemocratica, e questa tensione tra una visione, diciamo “laburista”, ed una, diciamo “interclassista”, ha corroso nel tempo leadership, convivenza, e soprattutto futuro.

Così, nato per generare una nuova sintesi dall’intreccio tra le grandi culture sociopolitiche del novecento, il partito democratico è rimasto impigliato nelle loro tardive persistenze, che, organizzate in correnti catafratte, hanno fondamentalmente badato a garantirsi la sopravvivenza nell’apparato, sequestrando a sé il controllo degli organigrammi ed infine delle prebende. Vi è da chiedersi se questo destino non fosse scritto nella stessa logica fondativa di Walter Veltroni: quel “ma anche” apparve fin da subito come la “pecetta”, instabile per natura, applicata sui tanti punti di differenza e distanza. Punti di sutura a tenere vicine diverse visioni cristallizzate, culture di un ‘900 ormai lontano, quando il problema di fondo era piuttosto ed è ancor più oggi una nuova sintesi all’altezza dei tempi nostri.

Confesso di non aver fatto in tempo a leggere per esteso il testo del nuovo  Manifesto dei Valori (detto “Manifesto per il nuovo PD 2030”), rifondativo nelle intenzioni e che per ben 17 pagine si dilunga in articolazioni tanto complesse da scoraggiare e rendersi ininitelleggibile ai più. Il “Libertè, egalitè, fraternitè”, distillato purissimo e chiarissimo di concetti profondi, resta ben lontano. Non solo, le tensioni sono rimaste, esacerbate al punto da costringere il povero Letta ad un escamotage che affianca il nuovo Manifesto al vecchio, senza abrogarlo. Primo premio al Festival del “ma anche”.

In questo contesto, resiste (spes ultima dea), l’orgoglio residuo degli iscritti che chiedono di contare di più, oltre lo scodellamento della pasta alle feste di partito. E resiste, con ben altre motivazioni ed indomito, lo sterminato, per fortuna, esercito degli amministratori PD, partito nel partito, reso coeso non solo dalla passione ma anche dall’istinto di sopravvivenza, tratto identitario delle burocrazie di ogni tempo e colore.

Una componente cui si guarda con rispetto per la presa sui territori che grazie a loro il PD continua ad esercitare, ma che appare, la sua parte, come remora ad un cambiamento di fondo, ostacolo, in nome della necessaria continuità amministrativa, ad un mutamento capace di riaprire, con una nuova visione, anche l’afflusso verso il partito dei giovani, delle donne, degli strati sociali più colpiti dalla crisi che già in difficoltà, pagano prezzo doppio.

E’ chiaro, di questa visione, nel percorso delle primarie, si fa maggiormente carico Elly Schlein, personalità energica, giovane ed innovativa, della cui capacità di porsi in connessione con il mondo dell’impresa però non pochi dubitano. Il fatto è che per lei questo mondo, dominato dalla ricerca spasmodica del guadagno e dall’onnipotenza incontrollata delle nuove tecnologie al suo servizio, si degrada giorno dopo giorno fino al punto di non ritorno. Occorre ripensare ad un “nuovo modello di sviluppo”, e pazienza se qualche anziano ricorda il PCI anni ’70. Un mondo dell’esistente a cui piuttosto si rivolge con il cacciavite Stefano Bonaccini, erede neppure inadeguato di un riformismo emiliano che ha saputo elaborare dal dopoguerra ad oggi una continua mediazione tra “il sol dell’avvenire” e la vita quotidiana su questa terra, sempre più al ribasso però, secondo molti almeno.

Dietro il profilo dei due principali contendenti, si riproducono, pur con qualche importante passaggio di campo (Franceschini il più importante, ma non il solo), i fronti attorno a cui si sono storicamente aggregate le diverse componenti del partito. Sarebbe facile rappresentare il fenomeno, con tutti i rischi di riduzione schematica, dicendo che Bonaccini è il campione di Base Riformista, la corrente erede della visione renziana (pur emendata), mentre la Schlein è sostenuta da larga parte della sinistra erede della visione bersaniana (pur emendata), ma soprattutto per quest’ultima non si coglierebbe il segno profondo di una candidatura che guarda, più che a chi oggi c’è, a chi non c’è ed a chi neppure l’ha conosciuta la vicenda renziana. Soprattutto a chi cerca una nuova proposta che proietti il PD nel futuro, mentre Bonaccini sembra il campione della gestione del presente. Oltre a loro, scorgiamo gli altri candidati, Gianni Cuperlo, il maggior intellettuale del partito, e Paola De Micheli, di cui non si ricordano particolari meriti e rilevanza, salvo essere stata la prima a dichiararsi pronta alla segreteria. I loro voti peseranno al ballottaggio.

Sulle chance dei candidati, le elezioni regionali in Lombardia e Lazio produrranno grande impatto, regioni dove il PD, attore e vittima delle ultime vicende nazionali,  si è presentato con alleanze opposte nel “campo largo”.

Per noi, a Milano ed in Lombardia, la campagna per Majorino Presidente potrà dare o togliere benzina alla Schlein, molto dipenderà, più che dal successo finale (molto molto difficile), dal grado di consenso che avrà comunque raccolto, abilitando scenari possibili per la sinistra, anche alle primarie. Per alcuni la pietra di paragone sarebbe il 29,09% raccolto da Gori, ma non basterebbe, servirà altro.

Il 26 febbraio sapremo, non solo del nuovo segretario, ma anche della capacità del PD di ritrovare, con la mobilitazione popolare, nuova linfa per un nuovo cammino o se piuttosto il destino sarà segnato dall’ “orizzonte alla francese”, scenario dove la modernità ha distrutto il Partito Socialista protagonista per 60 anni della vita politica. Il rischio è attuale, ed in molti, da Calenda a Conte, e non solo loro, guardano con qualche speranza a questo delicatissimo passaggio.

Il 26 febbraio  sapremo meglio se la vicenda dell’oggi sarà fine dell’inizio o inizio della fine.

Giuseppe Ucciero



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