31 maggio 2022

GIOVENTÙ “INCENDIATA”

Una generazione fragile


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Da ricercatore e studioso dei fenomeni comportamentali degli adolescenti credo che sia difficile poter affermare, con certezza, che la violenza tra gli adolescenti e i giovani adulti sia “quantitativamente” aumentata o diminuita rispetto al passato che noi adulti ricordiamo. Non ci sono dati oggettivi che ci consentono il confronto. 

Oggi si enfatizzano molto le cosiddette “baby gang” che assalgono loro coetanei (ma non solo) per bullizzarli o, anche peggio, per derubarli o farne vittime di atti violenti. A Milano è stata stilata addirittura una mappa territoriale dove operano ben identificate “baby gang”.

Fenomeno inappellabilmente deplorevole, ma siamo sicuri che sia davvero una inquietante novità?

Ripenso a due icone della letteratura per ragazzi del secolo scorso: “I ragazzi della via Pál” (addirittura della fine dell’800) e, di poco più recente, “La guerra dei bottoni”. Titoli che dicono poco o nulla agli attuali adolescenti (non perdono granché), ma non certo ai loro genitori o ai loro nonni. E mi chiedo: quale nobiltà di intenti c’era nella “guerra” tra la banda delle cataste di legno e quella dell’isolotto dell’Orto, formate addirittura da pre-adolescenti? Quanto sono distanti dal bullismo le umiliazioni che i suoi stessi compagni infliggono al fragile Nemecsek, che i nemici provvederanno anche a gettare nel fiume facendolo irrimediabilmente ammalare di polmonite? La difesa-conquista di un territorio su cui giocare giustifica “guerra”, botte e violenza? Senza contare che nei ragazzi della via Pál alla fine ci scappa pure il morto, sia pure tra il pentimento finale dei suoi aguzzini che ricorda sinistramente quei “ma io scherzavo”, o “io non volevo” con cui i bulli anni 2000 si difendono (e magari sono anche sinceri) quando le loro performance sfociano in tragedia.   

E che dire delle due bande strapaesane di Longeverne e Vetrans che, anche loro, si contendono il territorio a suon di botte e violenze e infliggono ai rispettivi “prigionieri” l’umiliazione di strappare loro tutti i bottoni? Bottino, per altro, esclusivamente simbolico che testimonia soltanto la prepotenza del più forte e l’irrisione del vinto. Proprio come sono altrettanto simbolici, oggi, i furti di “cuffiette” (che probabilmente i razziatori già hanno in abbondanza) e di cellulari che potranno essere “bloccati” dal derubato e quindi resi inutilizzabili a meno di interventi tecnici che implicherebbero la non scontata connivenza di bande di adulti con le baby gang esecutrici.

Sarò forse “sacrilego”, ma io vedo enormi analogie tra quel passato letterario, celebrato per decenni, e il presente. Il “generale” Boka & C. non erano meno violenti degli adolescenti di oggi, perché una componente violenta è purtroppo connaturata con l’essere umano, fin da cucciolo. 

La differenza è che I ragazzi di via Pál e dei bottoni erano, ovviamente, figli della loro epoca, dove anche le guerre avevano un “dress-code” che oggi è scomparso. A cominciare da una formale dichiarazione di guerra a mezzo pergamene e ambasciatori.

Oggi un tipo di guerra si chiama terrorismo, dove qualcuno, all’improvviso, ammazza qualcun altro facendosi saltare per aria in un centro commerciale o investendo i passanti con un camion, o imbracciando un mitra e sparando a caso tra la folla. Oppure – lo stiamo drammaticamente vedendo in questi giorni – se qualcuno decide di rispolverare il peggiore tra gli scheletri del ‘900 –, la guerra è un assalto criminale che non distingue, volutamente, chi combatte da chi è inerme.

Tornando agli adolescenti, la differenza è che da un lato anche la loro violenza non ha più alcuna etica, e dall’altro oggi sono tutti ampiamente dotati – e le usano – di armi nucleari.

Armi nucleari che si chiamano smartphone e social. In una società in cui tutto è spettacolo – esiste solo ciò che si vede – e dove la violenza esercitata dagli adolescenti è quasi sempre generata da un perverso desiderio di sentirsi protagonisti di qualcosa, le potenzialità offerte dal combinato disposto di smartphone e social sono non solo un favoloso strumento di amplificazione della propria performance, ma anche un seducente incentivo ad agire.

A che serve bullizzare qualcuno se non posso condividere la scena e riderne con gli amici? A che serve molestare una ragazza o un ragazzo omosessuale se non posso poi, ribaltando le carte, darli in pasto ai social con la targa di “troia” o di “frocio”?

C’è però, rispetto al passato anche recente, un’altra importante differenza che ci riporta più direttamente al territorio. Che le “periferie” (geografiche, sociali, culturali) siano brodo di coltura per la violenza lo sappiamo da sempre. Che i giovani che le abitano scarichino spesso nella violenza le loro frustrazioni ma, soprattutto, il vuoto che vedono davanti a loro, è conseguenza diretta. L’elemento nuovo, invece, è che la violenza giovanile a cui oggi assistiamo sembra essere tracimata dai confini “storici” in cui ci aspettavamo di trovarla e per decenni l’abbiamo di fatto trovata. Alla base della violenza giovanile odierna c’è sempre un disagio, ma è un disagio nuovo; è una “variante”, per usare un termine di moda, molto più trasversale e, per alcuni versi, molto più pericolosa. 

Ci troviamo di fronte ad una generazione fragile – figlia di una generazione di “guastatori” in perenne crisi di nervi – a cui sono stati strappati valori e ideali senza che nemmeno se ne accorgessero; a cui è stato tolto – solo per fare uno degli esempi possibili – anche il sano piacere di fare “politica” (e come darle torto) per sentirsi protagonista del suo futuro.

Ci troviamo di fronte ad una generazione nemmeno “incazzata”, ma svuotata, e a un disagio collettivo che prende tutti, dalle banlieue alla ZTL, e genera una violenza che non è più (o non è più solo) rabbia o desiderio di “riscatto”, ma “life style”. Violenza per noia, per pigrizia, per divertimento, per darsi un’identità; violenza spettacolo. 

Purtroppo contro questa violenza non basta un oratorio o un centro di aggregazione sul territorio. Non bastano più i “vaccini classici”, efficaci contro la violenza giovanile a cui eravamo abituati. Oggi è necessario cercare di dare complessivamente fiducia ad una generazione stremata dall’incertezza sul suo futuro. All’ascensore sociale bloccato, alle prospettive di lavoro sempre peggiori, ad una disgregazione di ogni valore si è aggiunto prima il Covid – che, come scrivo nel mio recente saggio Adolescenza Nonluogo, ci ha dato un’ulteriore occasione per dimostrare la totale disattenzione della società verso gli adolescenti – e adesso una guerra inconcepibile che non riusciamo a fermare.

Invece di limitarci a descrivere spaventati la violenza adolescenziale a cui assistiamo, dovremmo fare un bell’esame di coscienza collettivo e renderci conto che non siamo di fronte ad una “gioventù bruciata”, ma ad una “gioventù incendiata” e i piromani siamo noi.

Maurizio Tucci



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