8 febbraio 2022

MODELLO MILANO / MODELLO CITTÀ METROPOLITANA

Come invertire la rotta (in attesa di una riforma istituzionale)


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Milano negli ultimi due anni, tra il 2019 e il 2021 ha perso più di 33.000 abitanti (secondo i dati ISTAT) non solo per andamento naturale, ovvero le morti hanno superato le nascite come avviene ormai da molti anni, ma anche per saldo migratorio, ovvero il numero di chi ha lasciato la città ha superato il numero degli immigrati, ciò che invece non avveniva da molti anni. La città è diventata meno attrattiva. E’ scontato che il Covid abbia influito sul saldo naturale, ma probabilmente ha inciso anche su quello migratorio se non altro per il rallentamento delle attività economiche.

Il “modello Milano” si è dunque arrestato? Ma cos’è il modello Milano? 

Anche la popolazione dell’hinterland, ovvero il resto della Città Metropolitana (CM), è rimasta praticamente stabile (nel 2020 è cresciuta di 8.000 abitanti rispetto al 2019, pari ad un incremento dello 0,4%) C’è dunque anche un modello “Città Metropolitana” che si è arrestato? Vediamo di capire, a grandi linee, quali sono le origini del modello di sviluppo milanese e le sue evoluzioni. 

La struttura dell’area metropolitana di Milano si è formata nel dopoguerra avendo come base una fortissima economia manifatturiera. Milano ha progressivamente espulso dalla città le fabbriche e ha concentrato attività direzionali e popolazione fino agli anni ’70, poi ha perso popolazione mentre continuavano a crescere i posti di lavoro terziari. Tutto ciò ha alimentato il pendolarismo, ovvero gli spostamenti quotidiani verso il capoluogo di centinaia di migliaia di persone provenienti dall’area metropolitana e anche oltre.

Nell’hinterland, in aggiunta alle fabbriche espulse da Milano, sono cresciute esponenzialmente le attività manifatturiere (piccola e media industria e artigianato ecc.) e con esse la popolazione che è cresciuta costantemente, le attività terziarie di servizio all’economia locale, le attività commerciali e naturalmente le abitazioni. Gli oltre 180 Comuni dell’area metropolitana (ex provincia di Milano) e la Provincia hanno costruito infrastrutture, servizi pubblici e “case popolari” sulla base di piani regolatori comunali: ogni comune aveva la sua area produttiva, le zone di espansione residenziale e le aree per i servizi pubblici, senza troppo curarsi di cosa succedeva nel comuni confinanti. Nei comuni più grandi vi erano anche attività terziarie indotte dalla base produttiva manifatturiera. Nel centro di ogni comune si è sviluppato il commercio di base. Dunque si era formata una grande città “a 15 minuti” se si considerano i servizi di base. 

Il modello era in equilibrio, lo era anche il mercato delle abitazioni (tanto che lo Stato e i comuni hanno smesso da trent’anni di costruire case popolari). I redditi garantivano alla maggioranza dei cittadini (non a tutti) di accedere alla casa. La rendita urbana era consistente ma diffusa in tutto il territorio metropolitano. Il pendolarismo verso Milano era rilevante, ma consistente era anche la quota di spostamenti intercomunali all’interno dell’area metropolitana. Gli spostamenti erano soprattutto generati dalla necessità di raggiungere i posti di lavoro ma anche per motivi di studio, di tempo libero e di consumo specializzato (1).

Chi è stato sacrificato da questo modello di sviluppo, soprattutto nei primi decenni, è stato l’ambiente e il paesaggio; per molto tempo le esigenze dello sviluppo economico hanno prevalso sulla tutela dell’ambiente e del paesaggio, poi l’attenzione all’ambiente e le leggi di tutela si sono imposte, ma in gran parte dell’area metropolitana, specialmente al nord, la qualità del paesaggio è rimasta definitivamente segnata.

Dopo la crisi del 2008 l’economia finanziaria “globale” ha concentrato il proprio interesse e gli investimenti immobiliari nel capoluogo, anzi nel centro del capoluogo. Le attività connesse alla nuova economia globale / internazionale hanno fatto crescere nuovamente la popolazione di Milano: è nato il “modello Milano” (semplificando) alimentato anche dal successo di Expo 2015, mentre il resto della CM si fermava (o meglio evolveva verso forme che andrebbero indagate meglio) con un vasto residuo di aree industriali dismesse.

Con l’epidemia di Covid il modello Milanese/Metropolitano si è arrestato. Che fare?  Si attende che l’impetuosa crescita dell’economia di quest’anno (+ 6%) riattivi il modello precedente o si cerca di indirizzarlo verso un modello di maggior equilibrio? La città a 15 minuti è il modello proposto dalla sindaca di Parigi e ripreso da Sala. Come tutti gli slogan è grossolano (se non sbagliato). La città a 15 minuti c’è già, almeno in parte per quanto riguarda i servizi essenziali e il commercio di base, sia a Milano (2) che nella Città Metropolitana dove i centri dei 133 comuni che ne fanno parte (3) sono sempre raggiungibili in 15 minuti, se non a piedi almeno in bicicletta, dalle rispettive zone residenziali.

Ciò che manca realmente al modello “città a 15 minuti”, diciamo meglio ciò che manca a costruire un modello Milano / Città metropolitana, diverso e alternativo a quello determinato dal mercato globale, è la redistribuzione territoriale dei posti di lavoro. Il telelavoro alimenta il processo spontaneo di redistribuzione, ma serve una politica pubblica e quindi urbanistica che supporti tale strategia. Bisogna redistribuire i posti di lavoro (esistenti e si spera nuovi) nelle periferie milanesi ma anche nell’’hinterland: il telelavoro può sostenere tale strategia ma solo in parte.

Secondo quanto ha dichiarato a “Repubblica” l’assessore all’urbanistica Tancredi (30 gennaio) il riequilibrio tra centro e periferie, a Milano, potrebbe essere realizzato entro il 2030: nella città sono in programma oltre “100 piani superiori ai 5.000 mq.” e oltre 4.000 interventi”, per un totale di 7 milioni di mq di aree (?) che interesseranno anche le periferie della città. Ma se si vuole modificare il modello d’uso della “Grande Milano”, ridurre la domanda di mobilità complessiva e ridurre il pendolarismo diretto al centro di Milano, bisogna anzitutto volerlo e poi agire a scala metropolitana.

Anche nell’Hinterland ci sono le condizioni infrastrutturali di base per una ripresa dell’area metropolitana: ci sono urbanizzazioni diffuse, c’è una buona rete di trasporto pubblico, anche se va potenziata; ci sono molte aree industriali dismesse che oggi sono elementi di degrado urbano, ma che costituiscono anche una grande risorsa. 

Oggi però, fuori Milano, il mercato è fermo; non c’è una domanda sufficiente ad innescare processi di rigenerazione spontanea delle aree urbanizzate obsolete; mancano le occasioni per sviluppare nuove attività economiche, magari di green economy, anche perché spesso manca la qualità urbanistica ed ambientale del contesto, condizione necessaria perché gli operatori investano in interventi di rigenerazione urbana fuori dal Capoluogo. 

D’altra parte la rigenerazione delle aree dismesse non è solo un’operazione edilizia, ma anche di organizzazione sociale, di conversione ecologica delle attività economiche, di riqualificazione del contesto urbanistico e di promozione sul mercato. La qualità del contesto urbanistico non è solo garantita dal mix funzionale, dalla presenza di servizi ecc. ma anche, se non soprattutto, dalla qualità ambientale, dalla presenza di aree verdi e dalla qualità del paesaggio.  Eppure nell’area metropolitana, a dispetto del suo storico sviluppo, ci sono condizioni ambientali potenzialmente favorevoli: c’è per esempio una buona disponibilità di verde: si pensi ai grandi parchi metropolitani, dal Parco Sud, ai parchi della cintura nord, e al residuo territorio agricolo del nord.  

Certo i grandi programmi di “rigenerazione” di Milano, come gli scali ferroviari, rischiano di assorbire la domanda per i prossimi dieci / quindici anni. Una regia metropolitana di programmazione dei tempi di attuazione sarebbe probabilmente indispensabile per attivare la rigenerazione delle grandi aree dismesse dell’hinterland.

Tutto ciò richiede una capacità di intervento che esula, per complessità delle funzioni e per dimensioni economiche, dalle capacità delle maggior parte delle amministrazioni comunali; ma richiede soprattutto istituzioni forti, sinergia con la Regione e lo Stato e una volontà politica decisa. 

Il modello e le istituzioni. Quanto sopra chiarisce perché è necessario avere una Città Metropolitana forte; la rigenerazione di aree dismesse e la creazione e redistribuzione dei posti di lavoro è solo una parte di quanto dovrebbe fare la CM per promuovere un modello alternativo. Si pensi al sistema della mobilità metropolitana, e ai vari aspetti della rigenerazione ambientale che devono essere affrontati soprattutto a scala vasta: l’assetto idrogeologico e la tutela dai cambiamenti climatici; il traffico e l’inquinamento atmosferico; la costruzione di una rete verde ed ecologica che innervi l’intera area metropolitana, riconnettendo i territori non ancora urbanizzati; ecc. L’attuale CM è un’istituzione adeguata al compito di sostenere un modello di sviluppo alternativo e ambientalmente sostenibile o è troppo debole? La CM funziona o no? 

La CM funziona come ente di supporto ai Comuni; svolge bene alcune attività che erano già della vecchia Provincia di Milano da cui ha ereditato una struttura burocratica competente ed efficiente (le strade provinciali, le scuole superiori, il Parco sud, la pianificazione territoriale, ecc.). Tuttavia è un’istituzione debole: tutte le decisioni importanti sui grandi interventi di trasformazione urbanistica, sulle infrastrutture, sui trasporti, sulla gestione della mobilità, persino sui parchi, ecc. sono state sempre prese dalla Regione, da Milano o dai singoli comuni interessati.

La debolezza della CM dipende dalla forma istituzionale e dai poteri assegnati dalla legge? Si, ma molto dipende anche dalla volontà politica di chi la amministra e dei partiti che ne reggono la maggioranza di governo. Non c’è dubbio che al centro della questione c’è la forma istituzionale. Gli amministratori della CM (che non sono pagati) non sono eletti direttamente dai cittadini, ma dai comuni e quindi rispondono alle loro comunità e non all’insieme della collettività metropolitana.

L’altro vulnus è che il sindaco della CM è per legge il sindaco di Milano. Ciò vuol dire che i soli residenti di Milano, ovvero il 42% dei cittadini della CM, eleggono il sindaco in nome di tutti gli altri. I cittadini metropolitani pertanto non sentono propria l’istituzione ed infatti i più, probabilmente, non ne conoscono neanche l’esistenza. 

Sulle colonne di ArcipelagoMilano s’è molto discusso della questione; la sintesi l’ha tratta la Corte Costituzionale con sentenza del 7 dicembre che ha giudicato incostituzionale la disciplina dei sindaci metropolitani (vedi tra gli altri gli articoli di Felice Besostri del 25 settembre e di Valentino Ballabio dell’11 gennaio, 2021). Un sindaco eletto solo dai Milanesi tenderà ad occuparsi solo di Milano; proporre strategie innovative per l’intera area metropolitana ad un’opinione pubblica del tutto disinteressata per ignoranza del possibile ruolo dell’istituzione, comporterebbe uno straordinario impegno politico.

Dunque bisognerà attendere la riforma istituzionale della CM per sostenere un nuovo modello Milano / Città metropolitana? In realtà si potrebbe già fare molto se ci fosse la volontà politica dell’amministrazione di Milano e delle forze politiche di centro sinistra che la sostengono e che dovrebbero avere l’obbiettivo di riconquistare l’hinterland.

I poteri che la legge assegna alla CM sono infatti maggiori di quelli che effettivamente esercita. A cominciare dall’urbanistica, ma anche per quanto riguarda i trasporti e l’ambiente. La CM in teoria avrebbe più poteri della vecchia Provincia e potrebbe esercitarli per interventi di grande dimensione di scala metropolitana. Non si tratterebbe di entrare in conflitto con i comuni, ma al contrario di sostenerli concretamente in operazioni che per i più sarebbero fuori scala. Naturalmente una tale strategia comporterebbe che risorse ed opportunità di investimento, oggi concentrate nel capoluogo, venissero redistribuite nell’area metropolitana.

Se il Sindaco metropolitano volesse riportare al centro della sua azione politica la dimensione metropolitana di Milano, oggi ha due strumenti fondamentali.

Il Piano territoriale metropolitano e i finanziamenti nazionali, sia del PNRR, sia degli altri canali di finanziamento europei e nazionali che dopo la sospensione del patto di stabilità si sono aperti in maniera cospicua. Il quadro di riferimento per sostenere interventi concreti di grande scala e di valore strategico da parte della CM dovrebbe dunque essere il Piano territoriale metropolitano (PTM) entrato in vigore il 6 ottobre. Il Piano delinea un “modello “di riequilibrio territoriale ma senza coinvolgere Milano (è un Piano a “ciambella” con il buco del Capoluogo) L’approvazione del Piano non ha avuto alcun rilievo né politico né mediatico. E’ stata un’operazione tecnica (si doveva fare per legge). Tuttavia in esso sono contenute strategie in termini di mobilità, poli di sviluppo e reti verdi che, se attuate, potrebbero riattivare un modello di sviluppo più equilibrato: la questione è l’effettiva capacità e volontà di attuarle.

Andrebbe pertanto riconsiderata la coerenza tra Piano urbanistico di Milano e Piano territoriale della CM e gli investimenti pubblici (il PNRR, gli altri canali di finanziamento straordinario, ma anche le spese di investimento ordinarie) dovrebbero essere finalizzati a realizzare gli obbiettivi della pianificazione.

Dunque un banco di prova della volontà politica di dare a Milano una visione metropolitana è anche l’applicazione del PNRR. Oggi la CM deve predisporre il “Piano urbano integrato” in applicazione del PNRR: sono disponibili 277 milioni distribuiti in quattro o cinque progetti: il 40% per Milano e il 60% per il resto della CM. Per la selezione de progetti sono state definite linee strategiche che fanno riferimento al Piano strategico triennale 2019 – 2021, al Piano Territoriale Metropolitano e al Piano Urbano della Mobilità Sostenibile. Due progetti sono stati redatti direttamente dalla CM: uno riguarda il piano della mobilità ciclabile metropolitana; l’altro, redatto con il Consorzio dell’acqua potabile riguarda il drenaggio urbano e la desigillatura del suolo e interessa una trentina di comuni. Ciascun progetto vale circa cinquanta milioni. Un altro progetto riguarda la rigenerazione urbana diffusa ovvero la rifunzionalizzazione di spazi ed edifici di proprietà pubblica: in questo caso il criterio è stato quello di privilegiare gli interventi compresi nei “Luoghi Urbani della Mobilità”, particolari posizioni individuate dal PTM di connessione tra sistema insediativo e reti infrastrutturali. I due progetti di Milano riguardano la mobilità sostenibile e interessano anch’essi diversi comuni. Analogo ruolo di regia era stato svolto dalla CM in occasione dei bandi di finanziamento nazionale “Periferie” e “Qualità dell’abitare”. CM si è dunque conquistata un ruolo di regia per interventi diffusi nei comuni dell’hinterland. Per ora Milano fa ancor a sé. Comunque è un passo avanti. Tuttavia anche sul “Piano urbano integrato” il dibattito è rimasto confinato agli addetti. Se nel prossimo futuro l’amministrazione di Milano e i partiti che la sostengono si daranno una strategia metropolitana, la CM potrà impostare la seconda tranche del PNRR su operazioni strutturali di scala metropolitana, come la rigenerazione di grandi aree dismesse, operazioni che possano invertire la rotta del modello Milano / Città metropolitana. 

Ugo Targetti

Note

(1) in Lombardia oltre il 50% degli spostamenti quotidiani varca il confine comunale. Nell’area metropolitana tale quota è ancora superiore

(2) Il PGT di Milano divide la città in 88 Nuclei di identità locale (NIL), scorrendo le schede descrittive di ciascun nucleo si rileva una dotazione diffusa di servizi pubblici e privati e di commercio, naturalmente con squilibri tra centro e periferia.

(3) In realtà il ragionamento vale per l’intera area metropolitana formata, quanto meno, dalla Città Metropolitana di Milano e dalla provincia di Monza e Brianza costituitasi per separazione dalla provincia di Milano e che per densità del costruito ha analoghi valori della CM.

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