11 gennaio 2022

MILANO E IL COVID: UN POCO INVIDIABILE PRIMATO

In attesa della "nuova normalità"


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Sindaco e assessori nelle interviste e nei comunicati stampa annunciano quasi quotidianamente che la nostra città è in cima alla classifiche sia che si parli di piste ciclabili o di operazioni “green”. Questa volta siamo in testa alle classifiche per diffusione di contagi da Covid e sue varianti, contraddicendo i dati del passato recente che ci vedevano esattamente tra le città che avevano contrastato la pandemia con maggior efficacia.

Il perché di questo ribaltamento è difficile da spiegare, probabilmente è legato alla dinamicità stessa della città che vive della storica laboriosità dei suoi cittadini che, di conseguenza, li porta ad una alta frequenza di scambi interpersonali nel lavoro, nelle abitudini di vita, nell’uso del tempo libero.

Il tutto accade malgrado il livello di vaccinazione sia uno dei migliori del Paese. Il dato che comunque manca e che servirebbe, è la percentuale dei no-vax sulla popolazione non solo del Comune ma anche della Città Metropolitana e dei suoi pendolari.

Probabilmente anche l’alta età media – 45,5 anni – della popolazione, un punto in più della media nazionale, ha un suo ruolo come starebbero a dimostrare i dati di mortalità da Covid dei Paesi subsahariani dove la mortalità a fronte di una campagna vaccinale del 5/10 % della popolazione registra decessi pari a un decimo dei Paesi europei ma dove l’età media è di 20 anni.

La pandemia e il suo diffondersi ha sollecitato il mondo degli urbanisti ad interrogarsi per capire se vi fosse un qualche rapporto tra la diffusione di un virus e la città, la sua forma, la caratteristica dei suoi spazi pubblici e privati, il modo di essere abitata, lo stile di vita dei suoi abitanti e le caratteristiche del lavoro che vi si svolge.

La letteratura su questo tema, i dibattiti e gli interventi a partire dai primi mesi dell’arrivo della pandemia è vastissima, basta digitare su Google “Covid e urbanistica” per trovarsi di fronte a 1.800.000 voci, dalle assolutamente pertinenti a quelle di semplice area.

Facendo una lettura casuale di un paio di decine di articoli, scegliendo quelli pubblicati dagli Istituti più seri, INU ad esempio, si nota un prevalere di opinioni che sostanzialmente ricalcano il dibattito sull’urbanistica pre-Covid con i suoi “mantra”: rigenerazione, reinvenzione, resilienza, riqualificazione, ristrutturazione, ri… ri…. In buona sostanza si insiste su una accelerazione di interventi già auspicati prima dell’arrivo della pandemia. 

Alcuni interventi, per la verità, trattano delle conseguenze della pandemia nella trasformazione di comportamenti dei cittadini: da comportamenti contingenti, dettati da decreti governativi o di autorità locali, a comportamenti stabilmente radicati, quella che ormai si definisce come “nuova normalità”. Qualcuno sta già parlando di superare in concetto di “antropocene” in “neoantropocene”.

Ma a partire da quando potremo dire che abbiamo raggiunto il momento della nuova normalità?

Probabilmente e rozzamente, dopo che i giornali e i media in genere, relegheranno le notizie sulla pandemia tra le piccole notizie di cronaca.

Tuttavia sin da adesso possiamo occuparci di qualcosa che non tornerà mai più come prima: il problema della mobilità in relazione al lavoro a distanza con tutte le conseguenze sul traffico, sul trasporto pubblico e sull’inquinamento, senza dimenticare il problema della consegna a domicilio già presente oggi. 

Ma su tutto, come sempre nei momenti di forte cambiamento, si pone il problema di chi sarà in grado di tener in mano le redini per evitare che un cambiamento senza regole non finisca per privilegiare una parte sola della popolazione, così come è successo con la globalizzazione, salutata come un fenomeno benefico per l’umanità e che invece ha consentito solo a che la ricchezza del mondo si concentrasse in poche mani con una maggior divaricazione tra ricchi e poveri.

Un primo giudizio sulla capacità di tenere in mano le redini del cambiamento a Milano sarà la gestione dei fondi del Pnrr, dei quali si sa poco o nulla ma che meriterebbero un dibattito trasparente sulla loro destinazione. Quando ci sono di mezzo i soldi la trasparenza non è mai troppa.

Luca Beltrami Gadola

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  1. Valeria fieramonteGentile Gadola, trovo del tutto impossibile che l'età media di un paese siano venti anni! Non potrebbe neanche riprodursi, perché le madri morirwbbero prima. Il dato sarà rwlativo al fatto che c'è un eccesso di nascite, es oltre 10 figli per donna, ma allora occorrerebbe specificare..
    12 gennaio 2022 • 11:15Rispondi
    • Luca Beltrami GadolaLe confermo il dato che può controllare https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/i-virus-dellafrica-25885 ISPI è un is5tituto affidabile.
      12 gennaio 2022 • 11:30
    • Cesare Mocchi"media" non vuol dire "massima". Se c'è un'elevata mortalità infantile, ad esempio, si avrà un'età media bassa pur in presenza di popolazione adulta o anziana. Nelle stesse famiglie nobili europee ad esempio (quelle su cui abbiamo più dati) fino a pochi secoli fa l'età media era di circa trent'anni (nelle classi inferiori ben più bassa). Ma questo non vuol dire che morissero a trent'anni, era solo una media fra il 50% che moriva appena nato e il 50% che moriva a sessant'anni (per semplificare)
      12 gennaio 2022 • 12:12
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