11 gennaio 2022

CENT’ANNI DI REFERENDUM COMUNALI DALLA SCALA A SAN SIRO

Qualche volta la storia si ripete


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A proposito della vicenda San Siro si è tornati a parlare di un possibile referendum comunale e si è aperto un dibattito tra favorevoli e contrari allo strumento referendario, per primo il sindaco che è stato piuttosto chiaro: “referendum sullo stadio di San Siro? Lo facciano ma le mie decisioni le ho prese”. La questione non è nuova anzi è vecchia per la precisione più che centenaria.

Il primo referendum comunale si svolse infatti il 16 dicembre 1901 ed ebbe come oggetto il contributo economico che il municipio avrebbe dovuto dare al Teatro alla Scala.

La vicenda è questa: esisteva un annoso contenzioso sul teatro che contrapponeva i palchettisti che di fatto ne controllavano la gestione e gestivano il bagarinaggio al Comune che ogni anno doveva ripianare le perdite di gestione, con un contributo (peraltro insufficiente) nel 1901 di 150.000 lire (all’incirca 700.000 euro). Chiamato in giudizio dai palchettisti il comune aveva vinto la causa e ebbe riconosciuto di non avere alcun obbligo economico nei confronti del teatro.

800px-Majno,_Luigi_–_Commento_al (1)Ad aprire la strada al referendum fu nell’aprile Luigi Majno, uomo di punta del riformismo socialista milanese, principe del foro che nella sua vita fu prosindaco della città, assessore, rettore della Bocconi, presidente dell’Umanitaria, docente universitario, presidente dell’ordine degli avvocati, membro della commissione di beneficienza della Cassa di Risparmio, che tuonò contro il contributo volontario alla Scala: “le 150.000 lire il comune potrà spenderle per altro e più morale intervento” e ancora “Le spese per spettacoli non si possono ammettere per una questione di principio … nei doveri di un comune moderno non può darsi la prevalenza al teatro”.

Il 4 dicembre 1901 il comune pubblicò questo manifesto: “Il consiglio comunale nella sua seduta del 23 aprile ultimo scorso deliberava di chiamarvi entro l’anno a pronunciarvi con pubblico referendum sulla questione del nostro massimo teatro alla Scala… Il Consiglio nel rimettersi al voto degli elettori, dai quali attinge i suoi poteri, ha reso omaggio al principio della sovranità popolare ed alla attitudine cosciente del corpo elettorale di pronunciarsi sopra una questione che involve non solo l’onere finanziario del Comune ma eziandio altri interessi d’indole artistica, economica e sociale.” 

Pur con molte subordinate implicite che tendevano a lasciare in parte mano libera all’amministrazione, il quesito era chiaro: “Se il comune abbia a concorrere nelle spese di esercizio del teatro alla Scala.”

La votazione recita la delibera, “si fa a mezzo di scheda in carta bianca, dalla quale risulti chiaramente il voto, espresso con la parola si, oppure no, manoscritta o stampata. Le modalità della votazione sono le medesime dettate dalla legge comunale e provinciale”.

A decidere le modalità referendarie e il quesito (dopo che il referendum fu sorprendentemente approvato dal prefetto) una riunione tra il sindaco Mussi l’assessore Barinetti (poi sindaco) i consiglieri Gnocchi Viani, Alessi, Antongini il 1° dicembre, quindi non una lunga campagna elettorale, ma combattuta; infatti, l’Avanti! parla di manifesti di tutte le dimensioni e colori che riempiono la città.

Gli schieramenti furono diversi da quelli politico amministrativi.

DDC_05_29011911_01 (1)Contrario al referendum in quanto tale, il Corriere della Sera: “in onta alla legge, in onta alla sincerità, il consiglio comunale di Milano ha deciso d’indire il referendum … per girare a una folla irresponsabile una responsabilità grave che essa maggioranza non vuole assumere … quante spese fanno, ed è utile e necessario fare, le quali ove fossero sottoposte all’approvazione del popolo sarebbero a grande maggioranza respinte”. Argomento ripetuto per tutti i 73 referendum nazionali svoltisi nell’Italia repubblicana, per i referendum regionali e per quelli comunali!

Sulla stessa posizione le associazioni liberali che proposero l’astensione come parte dei radicali e gli esercenti; in particolare per i liberali era negativa l’idea del referendum consultivo mentre accettavano quello abrogativo; altri ritenevano ammissibile solo il referendum consultivo senza obbligo per il sindaco, altri ritenevano l’obbligo applicabile alla giunta ma non al consiglio comunale.

Anche l’Unione Popolare, associazione moderata, fu contraria al referendum in quanto tale perché “sperimentale, inopportuno e pericoloso” e aggiunse ai motivi per non votare: “il referendum non è fatto a suffragio universale, comprendendo anche le donne che abbiano raggiunto la maggiore età … la questione della Scala non interessa i soli elettori amministrativi ma tutta la cittadinanza, comprese le donne”, del voto femminile non parlò nessun altro.

Favorevoli al contributo l’associazione industriali ed altri esercenti che temevano per l’indotto così quantificato, forse con una qualche esagerazione: “l’indotto delle sartorie teatrali che danno lavoro a 1000 operai ed hanno un giro d’affari superiore al milione, le agenzie teatrali (ne erano 17) con un giro d’affari di 8 milioni, 70 maestri di canto etc”, valutando in 1.600.000 l’indotto complessivo.

Non mancò chi rilevò allora come oggi che Torino, Genova, Bologna, Roma, Palermo e Parma spendevano proporzionalmente di più per i loro teatri.

Favorevoli al referendum i federalisti che citavano a mò di esempio i 128 referendum tenutisi nel cantone di Zurigo tra il 1874 e il 1893.

Con loro i socialisti riformisti che teorizzarono lo strumento referendario al congresso della appena costituita dell’Associazione nazionale dei Comuni italiani (ANCI), (il cui primo congresso si svolse a Parma nell’ottobre 1901) e che organizzarono una manifestazione dell’ANCI al teatro Lirico di Milano il 28 giugno 1903 per sostenere l’istituzione del referendum municipale sulla base del d.l. presentato alla Camera dal radicale (e cugino di Bissolati), Sacchi. 

Va detto che in quella assemblea fu durissima invece l’opposizione dei socialisti rivoluzionari, mentre L’avanti! era favorevole ai referendum come strumento dell’autonomia comunale

L’interesse per il referendum per socialisti riformisti era politico tant’è che avevano (il 27 aprile) ipotizzato in consiglio comunale d’intesa con radicali e repubblicani la possibilità di sottoporre a referendum la recitazione della preghiera nelle classi delle scuole comunali, principale propugnatore dell’abolizione l’assessore massone Malachia de Cristoforis.

Nel merito del quesito contrarissimi al contributo alla Scala i cattolici. Il comizio del Fascio Cattolico in via Bassano Perrone fu sciolto dalla polizia e gli organizzatori (Oliva Luigi e Grossoni Ercole) denunciati per non aver preventivamente avvisato la questura ma poi assolti perché il tribunale ritenne che il referendum potesse essere inserito tra i comizi elettorali per i quali non esisteva procedura autorizzativa. Anche un comizio di Filippo Meda, contrario al contributo, presso le scuole comunali di Corso di Porta Romana fu sospeso con tafferugli.

Sulle stesse posizioni i socialisti, determinanti anche per sconfiggere l’astensionismo. Turati fu tranchant. “è ora che finisca la mendicità dei milionari”, aggiungendo che solo il dieci per mille di coloro che vanno a teatro capisce qualche cosa, mentre il futuro sindaco Caldara sosteneva in un comizio nelle scuole di via Felice Casati: “il Comune provveda ai bisogni generali della città, piuttosto che favorire un istituzione che forma l’interesse e il godimento di pochi”, e per l’altro futuro sindaco Filippetti in un comizio nelle scuole di via Giusti (le scuole erano il luogo principale dei comizi) arringava: “alla Scala concorrono il comune, l’esercente e i palchettisti, i primi due perdono il terzo guadagna sempre”. 

Un anomalo schieramento cattolici-repubblicani-socialisti si contrapponeva a quello liberal conservatore.

Ancora anni dopo quando il deficit della Scala raggiunse le 267.000 lire e si ripristinò il contributo, il riformista Cesare Sarfatti sostenne che “non è rilevante se la Scala chiuderà”, e ricorda che gli editori di musica impongono delle opere senza valore a costi altissimi per il teatro con paghe altissime per i cantanti proponendo invece del contributo di dare vita ad una orchestra stabile cittadina trasformando la banda municipale.

Per Sarfatti la Scala è un contributo voluttuario e per ripristinarlo ci vuole un nuovo referendum.

Per i favorevoli al contributo: “Il voto del referendum non può essere che unOLYMPUS DIGITAL CAMERA voto consultivo” e ancora: “Tutta la gran folla di gente ricca e spendereccia che accorreva in solenne pellegrinaggio d’arte verso la metropoli lombarda alimentandone l’attività commerciale non si muoveranno più”. 

Tra i protagonisti della campagna per il sì Giuseppe Giacosa, gli orchestrali, i musicisti ed in genere gli intellettuali moderati non cattolici; 200 artisti firmarono un appello per il mantenimento del contributo.

L’avvocato Volpi definirà la sospensione del contributo comunale come odio di classe.

Poche settimane prima del voto un referendum pressoché identico si tenne a Parma sul Teatro Regio, vinsero con una netta maggioranza i favorevoli al finanziamento comunale al teatro. Analoghi gli schieramenti con i socialisti parmensi più possibilisti: “non è questione di dare o non dare noi diamo per avere un teatro autenticamente popolare”.

A fronte di previsioni incerte il risultato fu nettissimo: aventi diritto al voto 56.983 i votanti 18.905: si 7.214, no 11.460, bianche 24, nulle 197.

I favorevoli al contributo rimarcarono la scarsa partecipazione al voto i contrari festeggiarono; le spese del referendum approvate dal comune furono di 10.000 lire.

La vicenda referendaria fu oggetto anche di dibattito parlamentare perché non esisteva una norma nazionale e determinò un effetto valanga in molti comuni fino ad allora restii ad usare lo strumento referendario.

Ma il definitivo impulso al referendum comunale fu dato da Giolitti con la legge n. 103 del 29 marzo 1903 sulle municipalizzate dove il referendum comunale viene inserito quasi come obbligatorio in materia di municipalizzate. L’articolo 13 stabilisce: “In seguito al parere favorevole della commissione la deliberazione del Consiglio Comunale è sottoposta al voto degli elettori del Comune convocati con manifesto della giunta municipale, da pubblicarsi 15 giorni prima della convocazione stessa. L’elettore vota pel si o pel no sulla questione dell’assunzione diretta del servizio. Nel caso di risultato contrario alla deliberazione del Consiglio Comunale, la proposta di assunzione diretta del servizio non può essere ripresentata se non dopo tre anni salvo che un quarto almeno degli elettori iscritti ne faccia richiesta nelle forme prescritte dal regolamento; ma anche in questo caso non dovrà essere trascorso meno di un anno dall’avvenuta votazione”.

I referendum comunali furono i più diversi: nel mantovano una amministrazione comunale indisse un referendum in merito all’accordo su un lascito, a Firenze il consiglio comunale discusse di sottoporre a referendum le nuove linee tramviarie, a Sestri si propose il referendum sul sussidio alla Camera del lavoro, a Ravenna sulle tasse comunali, a Casate Olona sulla Banda Comunale, a Novi Ligure contro la linea ferroviaria Ovada Alessandria, a Brescia sui trasporti (1907), a Torino sull’impianto idroelettrico (1904), a Cremona sui dazi, a Vigevano sulla municipalizzazione del gas, a Catania 1902 sulla panificazione, a Carrara sulle case popolari, a Mantova sul contributo al Teatro sociale, a Venezia sulla municipalizzazione dei vaporetti e via dicendo.

Quello sulla Scala non fu l’unico referendum comunale milanese di inizio secolo.

Nel luglio 1905 si votò per le case popolari, il quesito diceva: “L’elettore intende che il Comune si assuma l’esercizio diretto del servizio riguardante le case popolari”, tema così riassunto dai quotidiani dell’epoca: “Costruzioni, di circa 48 del tipo di quelle in costruzione in via Ripamonti distribuite in diversi punti della città, poco discoste da linee tramviarie e dotate di acqua potabile e di fognature, con alloggi composti di 1,2,3 locali. 

Il referendum sottopose a giudizio una scelta dell’amministrazione comunale popolare che nel frattempo era stata sostituita da quella conservatrice con sindaco Ettore Ponti, tuttavia, sia il si che il no non avrebbero mutato lo stato di fatto, perché i lavori erano ormai avviati e si trattava più una questione di metodo che di sostanza. 

Scrive Maria D’Amuri: “Sebbene la genesi del programma per le case popolari fosse avvenuta nel corso del 1902, le autorità civiche milanesi avevano stabilito sin dagli inizi di affidarne l’attuazione a un organismo distinto dal complesso dell’amministrazione, proponendo in nuce la struttura di un’azienda speciale. Pertanto, alla luce delle disposizioni sulla municipalizzazione, i propositi definiti erano stati ulteriormente circostanziati, in quanto “la nuova legge, nel mentre rimuove[va] qualche grave difficoltà finanziaria, che si sarebbe presentata altrimenti nell’attivazione del progetto, complica[va] d’altra parte la procedura da seguirsi”.

 In seguito all’assenso della Commissione reale sul finire del 1904, il comune organizzò il referendum …. Anche se “nelle città maggiori, l’esistenza di istituzioni bancarie e filantropiche disposte a sostenere l’edilizia popolare rendeva il modello dell’ente autonomo una vera e propria alternativa alle lungaggini burocratiche fissate dal combinato disposto delle normative di riferimento”.

In pratica un referendum inutile.

Ferocemente contraria all’intervento del Comune l’Associazione proprietari di case che aveva chiesto il referendum e i repubblicani; moderatamente contrari i liberali; favorevoli l’associazione dei democratici cristiani, i socialisti riformisti, la camera del lavoro con Codevilla (rivoluzionario) che spiegava che andava accettato quel poco di buono che può venire dagli avversari; incerti con Lazzeri i socialisti più radicali. Ovviamente per l’astensione gli anarchici con Braccialarghe.

I risultati furono netti anche in questo caso: su 64.230 aventi diritto i votanti furono 17.875 i favorevoli 15.834 i contrari 1.994. Nel post elezioni si discusse a lungo della scarsa partecipazione imputata al fatto che quasi tutti i partiti erano favorevoli ed al periodo di vacanza estiva.

L’istituto del referendum intanto diventava sempre più popolare. 

Nazionalmente fu proposto un referendum sul divorzio, che nelle intenzioni dei proponendi (onorevole Scalini) avrebbe ottenuto una ampia maggioranza negativa alla sua istituzione, a Milano il comitato contro il divorzio presieduto dalla contessa Parravicini di Revel aveva sede in via Ugo Bossi al 2, se ne riparlò decenni dopo. 

I commercianti proposero un referendum contro la chiusura domenicale dei negozi se ne riparlò un secolo dopo.

Un terzo referendum si tenne nel 1910 (10 aprile) con questo quesito: “Intende l’elettore che il comune assuma l’esercizio diretto del servizio riguardante l’impianto idroelettrico dell’alto Adda” (la Valtellina).

Dopo le elezioni del febbraio 1905 vinte dalla Federazione Elettorale Milanese, un’alleanza fra il partito liberale e i cattolici, il nuovo sindaco Ettore Ponti, che aveva come assessore ai lavori pubblici Giuseppe Ponzio, docente del Politecnico, confermò la strategia dalla precedente giunta, di costruzione di una alternativa municipale al monopolio della Edison.

La questione della municipalizzazione della energia elettrica non era minore anzi era stata all’origine delle dimissioni del primo sindaco di “sinistra” Mussi e del cambio di maggioranza con l’ingresso in giunta dei socialisti nel dicembre 1903.

In effetti il Comune ottenne concessioni idrauliche sul fiume Adda fra Bormio e Tirano e con delibera del luglio 1909 costituì l’Azienda Elettrica Municipale, di cui chiese ratifica popolare con il referendum in base alla legge Giolitti.

Per i socialisti, Filippetti con il parere favorevole di Turati e Treves sostenne la municipalizzazione anche se operata da una giunta conservatrice perché rompeva il monopolio dei privati speculatori e apriva alla concorrenza. Favorevoli anche i radicali, il collegio degli ingegneri e il Corriere che semplicemente definiva disastroso il voto contrario.

Il referendum si tenne quando gli impianti erano già stati costruiti (l’impianto di Grosotto), l’energia valtellinese arrivava regolarmente in città e il comune aveva impegnato decine di milioni e aveva ottenuto un significativo abbassamento dei prezzi; ma proprio perché “confermativo” il referendum fu ritenuto “ricattatorio” anche dal quotidiano più venduto in città Il Secolo (democratico progressista) che propose l’astensione mentre il quotidiano radical socialista diretto da Treves Il Tempo propose il rinvio del referendum per analizzare nuovamente i conti.

Capofila degli oppositori Eugenio Chiesa che pure era stato uno dei più strenui sostenitori della municipalizzazione del gas che invece il comune aveva respinto. Per Chiesa una delle figure di spicco del repubblicanesimo italiano e della massoneria milanese morto in esilio nel 1930, che esplicitò conteggi completamente diversi da quelli del comune, la “municipalizzazione” dell’energia elettrica era “impresa non savia e rischiosa, una cambiale difficile da onorare”. 

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Capofila dei favorevoli l’assessore liberale Ponzio che organizzò visite guidate agli impianti di via Gadio e piazza Trento.

Grosso modo la stessa platea di elettori di quello sulla Scala, 15.079 i voti favorevoli alla municipalizzazione e 15.44 quelli contrari.

I due referendum favorevoli all’intervento del comune si svolsero quando la guida della città era in mano ai due sindaci della destra storica Ettore Ponti che per i meriti di sindaco fu fatto marchese e Bassano Gabba mentre proprio il più autorevole sindaco socialista della città Caldara ritenne inutile nel 1916 sottoporre a referendum la municipalizzazione del servizio tramviario.

In conclusione, i primi tre referendum comunali della storia milanese rafforzarono le posizioni democratico riformiste e confermarono le scelte dell’amministrazione.

Nel caso della Scala, peraltro, il risultato fu disatteso. Inizialmente vi fu un salvataggio del teatro da parte dei poteri forti cittadini con una sottoscrizione che in 15 giorni raggiunse le 300.000 lire e l’assunzione delle responsabilità economiche da parte di uno sponsor autorevole il duca Visconti di Modrone; ma già nel marzo successivo la giunta prese in considerazione di pagare le spese di illuminazione e riscaldamento e di alcune serate popolari ( costo del biglietto 2,5 lire contro le 20 normalmente richieste) che sarebbero costate più del contributo oggetto del referendum.

emilio caldara (archivio storico società umanitaria, milano)Nel 1910 dopo una analisi pubblica del commendator Pressi per anni sindaco della Scala e per 22 anni consigliere comunale che evidenziava che non vi era nessuna possibilità per il teatro di sopravvivere senza un contributo pubblico essendo tutti gli spettacoli in perdita (gli incassi non coprivano la metà dei costi), il comune si impegnò di nuovo a versare 150.000.

Sarà proprio il socialista Caldara a suo tempo contrario al finanziamento comunale, nel febbraio del 1920 a chiudere il contenzioso con i palchettisti dando vita all’Ente Autonomo per la proprietà e l’esercizio del teatro alla Scala e a rendere permanente il contributo comunale. I Quattro rappresentanti del comune saranno lo stesso Caldara, Luigi Repossi tra i fondatori del partito comunista italiano, Claudio Treves il leader riformista e Angelo Scandiani che ne divenne direttore amministrativo.

In conclusione, possiamo sostenere che se più di cento anni fa il comune sottoponeva a referendum scelte come le case popolari, la municipalizzazione dell’energia elettrica, la sopravvivenza della Scala non pare oggi scandaloso sottoporre a referendum la questione di San Siro che in fondo è solo uno stadio di calcio.

Walter Marossi

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