9 novembre 2021

SAPESSI COM’È STRANO RITROVARSI A CORRERE A MILANO

Per dare un senso alla ripartenza


imm. Garzonio (1)

Il fondo americano Blackstone ha acquistato d’un botto una quindicina di palazzi storici, coi simboli compresi nel prezzo: via Montenapoleone (là dove c’è Cova, la pasticceria), corso Magenta/via Carducci (il Bar Magenta), poi via Manzoni, via Verdi, via Vincenzo Monti, piazza della Repubblica. Un affare di oltre 1 miliardo di euro. Chi ha venduto, la Reale Compagnia italiana (fondata nel 1862; 300 proprietari, tra cui bei nomi dell’aristocrazia milanese e lombarda) ha incassato il gruzzolo e soprattutto non ha più da preoccuparsi di costi e imposte. Sì perché dagli 80 milioni di “costo storico” sino al 2020, i valori immobiliari son passati ora a 1,2 miliardi. Milano un’altra volta apripista per il Paese. 

A Roma, il centrodestra, con Salvini che cerca consensi, pone il veto sulla revisione del catasto, perché dice di non voler tasse essendo la casa un diritto. Il centrosinistra, che qualche recondita idea di giustizia sociale e redistributiva dovrebbe averla, d’altra parte non riesce a spiegare al Paese la posta in gioco e le differenze tra il piccolo risparmiatore, che ha la casa della vita, messa su col mutuo, e i grandi proprietari; così asseconda Draghi che “mappa” per tenerli insieme tutti.

Dunque Milano torna ad essere appetibile, ad attrarre, investimenti e capitali (forse, in questi ambiti, ha fatto finta di fermarsi anche col Covid); banche e grandi studi professionali conoscono bene il loro mestiere; i nomi sono famosi e affidabili. Blackstone Group ha un patrimonio gestito nel mondo di 450 miliardi di dollari; unico “neo” su Milano – se così si può dire – è che comprò nel 2013 lo storico edificio del Corriere della Sera in difficoltà per 120 milioni di euro e ha poi cercato di venderlo ad Allianz al doppio; affare bloccato per ora: l’editore Cairo s’è messo temerariamente di traverso e adesso una corte di New York rischia pure di fargli pagare i danni. “Destino cinico e baro” avrebbe detto Giuseppe Saragat: alcune famiglie aristocratiche (per lombi e capitale) negli anni della crisi del Corriere risposero picche a una chiamata di Giovanni Bazoli. L’allora Presidente di Intesa, di fronte al voltafaccia degli eredi di Agnelli che avevano scelto la concorrenza, Repubblica, dopo aver fatto il bello e il cattivo tempo per anni in via Solferino, chiamò ad uno ad uno alcuni degli esponenti di quel mondo; investendo o mettendo magari in garanzia una qualche casa ben affittata avrebbero creato una cordata milanese/lombarda per salvare uno dei simboli di Milano. 

È evidente, col senno di poi, che non è che non scaldasse il cuore degli imprenditori il Corriere in quanto tale. Non gli interessava più seguire quell’etica protestante e spirito del capitalismo cui s’erano ispirati i Padri, che si identificavano in alcuni simboli: tra cui il Corriere, da apprezzare o contestare. Meglio la finanza e aver poche grane. Salvo reclamare aiuti di Stato per la ripresa e, a cascata, rammaricarsi per la fine del ceto medio. Con quel che segue, quanto a status generale della società e della cultura a Milano

Il movimento di capitali è un esempio di una Milano che ha ripreso a correre. E non solo in senso metaforico. Il traffico sembra a livelli pre-pandemia: i mezzi pubblici sono pieni, ma non stracolmi; in molti cercano ancora di evitare la MM e le concentrazioni di polveri sottili e altri veleni rischiano di dar ragione a Greta e ai più arrabbiati con lei: alle parole non seguono fatti, negli stili di vita personali e nei provvedimenti pubblici che dovrebbero far rispettare standard di sicurezza e salvaguardia ambientale. Nel caos del traffico, poi, è un happening di motorini, monopattini, biciclette, con questi ultimi due mezzi padroni dei marciapiedi, dei contromano, dei parchi, interpreti a soggetto del Codice Stradale e delle norme elementari di buon senso ed educazione civica, in specie verso pedoni, anziani, bambini. 

Una Milano che si muove con tanta frenesia sembra tornata ad essere appagata di sé e delle proprie piccole mete quotidiane. Sui Navigli, alle Colonne di San Lorenzo, nei vecchi e nuovi punti di ritrovo intorno a Garibaldi la movida si mostra in buona salute: basta guardare le immagini dei distanziamenti immaginari e delle mascherine tenute in ogni parte del corpo e dell’abbigliamento meno che davanti a bocca e naso.

Si muovono anche le proteste: da settimane il centro è ostaggio di cortei che se davvero volessero dar voce a un disagio reale per la salute dovrebbero protestare per la Riforma Sanitaria che la Regione di Lega e Forza Italia sta cercando di far passare e che perpetra i danni delle riforme Formigoni e Maroni. Infatti, nonostante la tragedia del Covid, non riporta la medicina sul territorio come si chiede a gran voce; non punta sulla prevenzione; continua a non tener conto delle esigenze di Sanità Pubblica e Ricerca, strizzando invece l’occhio ai privati; prosegue nell’opera di omologazione tra Milano e le altre realtà lombarde imponendo di fatto una visione urbanistica e territoriale che la Città Metropolitana (esiste anch’essa!) non ha dibattuto e scelto. 

I cortei non alzano cartelli inneggianti la restituzione ai milanesi e ai lombardi dei medici di famiglia come presidio di umanità ancora prima che di cura; se la prendono col green pass invece che col virus; penalizzano le attività produttive (negozi e rifornimenti); si dicono ecologisti (e favoriscono di fatto le multinazionali dell’e-commerce); sfogano rabbia (e forse altri disegni inconfessabili); prospettano minacce alle persone (e quando si punta alla casa del Sindaco qualcuno dovrebbe andarsi a rileggere la drammatica storia recente del “sono compagni che sbagliano”: ammesso che a Milano anche la storia non corra al punto da perdere per strada la memoria).

Forse sono da annoverare tra quelli che corrono anche coloro che han disertato le urne. Fenomeno nazionale, l’astensione, certo. A Milano però questa fuga dalle urne non può non essere correlata al fatto che Sala ha vinto al primo turno, non c’è stata competizione, il Centrodestra sotto la bandiera dell’unità e dell’esser pronto a governare il Paese ha rivelato di non saper trovare antagonisti all’amministrazione uscente, facce credibili, idee alternative, progetti; insomma: di non avere una classe dirigente, che la Milano liberale aveva, eccome… Dicono che lo stesso Sindaco sia preoccupato di tanta assenza di democrazia. E con lui i partiti di centro sinistra. Hanno ragione. Anche perché la latitanza da destra potrebbe esser letta come un “quello che state facendo va bene anche a noi”. Conclusione inquietante, in particolare, per il Pd. Dovrebbe stanarlo, costringerlo a “dire qualcosa di sinistra”, finalmente: indicazione sempre d’attualità adesso che Nanni Moretti è uscito col suo bellissimo Tre piani, un inno alla vita che nasce e al sapersi perdonare. In termini concreti vorrebbe dire ad esempio: lanciare da Milano, dove un terzo della popolazione è straniera, ius soli e ius culturae, la cui sperimentazione a livello di autonomia locale è già stata prospettata nella scorsa consiliatura da un gruppo guidato dalla consigliera Roberta Osculati. Che fine ha fatto quella proposta?

Un paio di anni prima del Covid, sullo slancio del New York Times che diceva esser belle Venezia, Firenze, Roma ma se uno voleva un posto “dove stare” in Italia doveva sistemarsi a Milano (quelli del fondo Blackstone hanno imparato) Sala scrisse per la Nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi un libro in cui sostenne che «Milano non ha il tempo di aspettare la politica, se Milano non rispetta i suoi tempi». Non c’è ironia e non c’è polemica nel fare questa citazione. Anzi. Il Sindaco pose un vero problema: “i tempi della città”. Quali sono tali tempi? Non si possono definire in astratto. Vanno misurati in rapporto a propositi, mete, obiettivi, programmi accuratamente studiati, approfonditi, discussi tra e con interlocutori diverse per competenze, sensibilità, approcci culturali, tecnici, di competenze. Insomma, la politica è Milano e Milano è politica. Non si scappa.

Se non si intraprende la via della polis e della civitas si corre a vuoto e nel vuoto, ciascuno per sé e Dio per tutti si sarebbe detto una volta, prima che l’altro giorno autorevolmente il Cardinal Ravasi (tra l’altro assai stimato e, dicono, ascoltato da molta borghesia e aristocrazia laica) non gelasse un po’ tutti affermando: «Viviamo in un tempo in cui purtroppo non c’è più il grande ateismo né la grande profezia». Pessimismo espresso in stile sobrio qualche giorno prima anche dall’Arcivescovo Delpini, quando, festeggiando la “nascita” del Duomo ha parlato di «questa città così attiva e inquieta, in questo spettacolo [sic!] di germogli e di insidie». Milano che dà spettacolo: giudizio poco lusinghiero.

«La “Milano da bere”, che resta il grande lato oscuro della città, faceva la sua parte anche perché c’erano partiti, ideologie, forze sociali, imprese, gli scontri fra Craxi e il Pci, la Dc e il popolarismo, Martini e don Giussani, Turoldo che cantava “Torniamo ai giorni del rischio” e i Centri culturali di orientamenti vari. Aveva in sé gli anticorpi dell’ironia di Jannacci e Renato, che nel 1974 avevano scritto (e Renato cantava con Cochi): «E allora ho detto “io parto / Ma dove vado se parto / Sempre ammesso che parto». E la vita, la vita era il titolo della canzone. Era bella la vita perché «c’è sempre lì quello che parte», ma anche la domanda: «Ma dove arriva se parte». Bastava “avere l’ombrela”, allora per ripararsi dalle intemperie. Ma coi cambiamenti climatici bisogna attrezzarsi. I parapioggia non bastano più e quanto serva correre è tutto da dimostrare.

Nel 1947 Risorgeva Milano (come scrisse il sindaco della Liberazione Antonio Greppi) perché con la nascita del Piccolo si sanciva il lancio del teatro a Milano (la Scala era stata ricostruita un anno prima a tempi di record). Ecco, teatro, cultura, arte, giornali, religione (viste le esternazioni di Ravasi e Delpini) aiutino Milano e la politica a dare senso alla ripartenza post Covid 19, per non correre a vuoto, con le cuffiette alle orecchie che raccontano quello che vuoi sentirti dire. Intanto, intorno, accade quello che accade a tua insaputa. E magari, Dio non voglia, non senti il fischio d’un treno o il clacson di un bus che arrivano a velocità sostenuta. Che rischio!

Marco Garzonio

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  1. Annalisa FerrarioVendere il patrimonio immobiliare è un po' come vendere i gioielli di famiglia. Se usi i soldi per investire in una nuova impresa, ben vengano. Se li usi per andare in vacanza, pagare la servitù e comprare da mangiare, è l'inizio della decadenza. Dalle rendite immobiliari stanno arrivando molti soldi. Che fine fanno? Vanno ad aggiungere uno zero virgola ai rendimenti di un fondo americano? Mantengono lo stile di vita di famiglie decadute? O si trasformano in nuovi investimenti sulla città? Questo dovremmo chiederci. Saluti.
    10 novembre 2021 • 08:23Rispondi
  2. fiorello cortianaLucidissimo Marco Garzonio, con amarezza ma con memoria e dignità. Queste due componenti sonio assenti nella classe dirigente milanese, tanto nell'aristocrazia imprenditoriale quanto nelle espressioni amministrative. Senza memoria e senza dignità non ci sono l'espressione di una visione per Milano metropoli regionale, così come è assente ogni capacità e volontà di esercitare la soggettività politica necessaria a tradurla in proposte operative. Sembra che l'ambizione attuale sia quella di diventare il teatro del valore nominale fondiario/immobiliare, parte della deriva finanziaria dell'economia. Non smettiamo di provarci.
    10 novembre 2021 • 16:10Rispondi
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