12 ottobre 2021

MARAN, MAO TSE TUNG E L’ASTENSIONE

Considerazioni sui dati elettorali guardando al passato


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Quando il distacco con il principale avversario è di 25 punti, quando il movimento politico che ha il più alto numero di parlamentari eletti non entra neppure in consiglio, quando Salvini e Meloni che si candidano alla guida del paese totalizzano insieme il 20% dei voti, quando tutte le opposizioni a sinistra non fanno un eletto, non si tratta di una vittoria ma di una schiacciante vittoria.

Vittoria del sindaco, che con Tognoli, Ferrari, Albertini si gioca il record di durata, che guadagna oltre 50000 voti personali rispetto alle elezioni precedenti e vittoria del Partito Democratico che con 152000 voti aumenta i consensi del 2016. Da solo il PD ha più voti di tutta la coalizione di centro destra, da solo rappresenta il 60% della coalizione di Sala.

Il commento elettorale potrebbe finire qui ma poiché questo turno amministrativo si è caricato di una fortissima valenza politica nonostante tutti i big abbiano rinunciato a capeggiare le loro liste per paura di “figuracce”, vale la pena guardare ad alcuni dati ed effetti collaterali.

La scarsa partecipazione, hanno votato in 491 126 per il sindaco e cioè il 47,82% e poco meno per il consiglio comunale corrisponde al risultato più basso della Lega da anni a questa parte ed alla sparizione dei 5 stelle, cioè delle due liste nazionali più populiste.

Si può quindi fare un’equazione tra aumento dell’astensione e calo dei populismi, perché gli astensionisti sono malpancisti per definizione, si sentono incompresi e non rappresentati al massimo ritengono che le differenze tra le coalizioni siano modeste.

A parte i pochi astensionisti anarchici gli altri sono qualunquisti.

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L’astensionismo è quindi un fatto negativo e pericoloso perché è un bacino di riserva dei populisti e come scrive linkiesta: “non è un sintomo della reazione popolare alla mala politica, ma è una malattia in sé, una sindrome autoimmune del corpo delle democrazie contemporanee, che aggredisce, riconoscendoli come estranei e nemici, il principi costituzionali dello stato liberale e della società aperta: dalla divisione dei poteri, al rule of law, dal principio di non discriminazione a quello di non coercizione, dal pluralismo ideologico e culturale al rispetto delle libertà e delle compatibilità economiche nell’esercizio del potere sovrano.”

L’astensione non va mai data per definitiva, solo due anni fa in epoca pre-covid alle europee, non proprio le elezioni più affascinanti, votava a Milano più del 58% e alle regionali addirittura il 68,4% quindi nulla

autorizza a pensare che le percentuali delle comunali siano definitive.

Il successo elettorale a fronte di una riserva silenziosa in gran parte su posizioni critiche va coltivato e curato; vale sempre la pena ricordare che sia alle amministrative del 1920 che alle politiche del 15 maggio 1921 i socialisti ottennero più del 50% dei voti in città e che 17 mesi dopo Mussolini marciava su Roma.

La sconfitta del populismo leghista-pentastellato, cioè del governo Conte 1, corrisponde anche a una sconfitta o per meglio dire sparizione della sinistra radicale e degli irriducibili.

Le tre liste comuniste ottengono 3292, il solo Partito Comunista dei lavoratori (molti candidati erano gli stessi che nel 2016) perde il 75% dei voti ottenuti cinque anni fa. Potere al Popolo (che pure a Bologna supera il 2%) prende lo 0,57 cioè 2572 voti. La lista che eredita il lascito di Basilio Rizzo: Milano in Comune Basilio Rizzo sindaco sinistra e costituzione diventata con grande fantasia Milano in Comune Mariani sindaco sinistra e costituzione con 4648 voti perde rispetto al 2016 13000 voti circa il 74%.

In pratica l’opposizione di sinistra vale in città all’incirca 9862 voti, 696 voti in più delle preferenze prese dal solo Maran!

Non va meglio alla sinistra “ragionevole”, Lista Milano unita, definita credo erroneamente pisapiana che di voti ne prende 7012.

Per la gauche nel suo complesso è il peggior risultato di sempre.

imm. marossi3Anche i radicali di Lipparini dimezzano i voti rispetto ai radicali di Cappato. Così come non sfonda la lista Renzi/Calenda/D’Alfonso/Scalpelli e apparentati strabattuta dalla concorrenza in famiglia della lista Sala docg.

Per converso c’è un fatto significativo: le liste di chiara promanazione del sindaco sommano oltre 70000 voti cioè a dire il 16% dei voti, è la prima volta che succede nel centro sinistra milanese. Se ne dovrà tener conto in sede di elezioni politiche.

È poi facile prevedere che in base alla massima del presidente Mao, “bastonare il cane che affoga”, i mesi che ci separano dalle politiche saranno dedicati sia al centro che a destra ad accaparrarsi i 31819 voti di Forza Italia.

Sempre Mao sosteneva che le contraddizioni sono di due tipi: quelle “tra il nemico e noi” e quelle “in seno al popolo”, queste seconde caratterizzeranno la politica nei prossimi mesi e si paleseranno clamorosamente quando si affronterà il tema della legge elettorale.

Un’altra importante innovazione indotta dalle elezioni comunali è relativa al peso specifico degli eletti e delle loro correnti.

Con una percentuale bulgara di più del 96,6% e con una forte partecipazione (circa il 65% degli aventi diritto) il 9 giugno 1991 i milanesi chiesero l’abolizione della preferenza multipla alle elezioni politiche.

 Era l’unico referendum ammesso tra quelli proposti, fu cancellato infatti quello che prevedeva l’elezione diretta del sindaco, ed era propedeutico nel programma dei promotori (il Manifesto dei 31) all’abolizione del proporzionale, il che avvenne poco dopo e della preferenza tout court.

Il risultato fu comune a tutta Italia, solo la Calabria non fece il quorum, non a caso la regione ancor oggi con il rapporto più alto voti-preferenze.

Preferenza e clientela divennero sinonimi come divennero sinonimi preferenza e corrente, in pratica una identificazione del male.

I commenti ai risultati furono univoci: “decisione scaccia mafia”, “vittoria della società civile che vuole moralizzare la politica”, “vince l’Italia pulita” titolava Repubblica, solo il Corriere e nelle pagine milanesi scriveva e avanzava il dubbio che con la preferenza unica si rafforzava il potere delle lobby.

Come qui già scritto, capofila del referendum furono alcuni dei padri fondatori de l’Ulivo e poi de il PD: la preferenza è “un fattore di competizione perversa e malsana tra candidati della stessa formazione, di lacerazione e indebolimento di un partito nel confronto con gli autentici avversari” (Piero Fassino e Walter Veltroni) peraltro più sobri di altri: “un formidabile incentivo all’incremento delle spese elettorali, al proliferare delle pratiche clientelari, del malaffare e della corruzione, del voto di scambio e degli inquinamenti malavitosi”, come “la garanzia del predominio delle organizzazioni criminali sulla società e sulle istituzioni” (Fabio Mussi e Pietro Folena).

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Il grande sconfitto fu Craxi che aveva indicato la strada dell’astensione; contrario al referendum era anche Bossi che si smarcò subito dall’occasionale compagno di strada definito bastardo.

Fu la prima picconata alla prima repubblica.

30 anni dopo il clima è cambiato e così la lista degli assessori è stata fatta sulla base delle preferenze e il recordman Maran confermato assessore a furor di preferenza; il che in parte era avvenuto già nella prima giunta Sala ma con una esplicitizzazione e una nobilitizzazione tutta nuova; in pratica la preferenza è diventata una legittimazione della classe politica screditata dai tanti paracadutati; del resto in questi anni il tasso di preferenze espresse (il rapporto tra preferenze e voti) è raddoppiato al nord e aumentato al sud dove raggiunge punte del 85/90%, quindi agli elettori la preferenza piace.

Oggi è più facile sentire anche tra i pentastellati affermazioni del tipo: “tra i sistemi elettorali più comuni, quello che valorizza al massimo la libertà del voto è senza dubbio il proporzionale con voto di preferenza”.

Ovviamente il numero delle preferenze sancisce anche l’irrilevanza politica, si misurano a centinaia i candidati che hanno preso meno di 10 preferenze, in un municipio una lista è riuscita ad ottenere 1 (leggasi uno) preferenza tra tutti i candidati

Dobbiamo quindi al “golden boy” Maran, ai suoi elettori e alla sua corrente aver abolito, almeno in città, gli effetti del referendum dando ragione ai perdenti di allora; che sia un segnale che si ripristina anche la proporzionale?

Walter Marossi

 



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