23 aprile 2021

RIFORMISTA O PROGRESSISTA: UN DISTINTIVO CHE NON DISTINGUE

Metterseli all'occhiello non dice nulla. Parole che la politica ha logorato


Non credo esista nella vasta e tormentata regione della politica italiana uno solo tra i leader, nella schiera dei parlamentari, dei consiglieri regionali e dei relativi assessori, nell’esercito dei consiglieri comunali o dei membri delle comunità montane, nella folla dei militanti di questo o quel partito o movimento, tra i giornalisti o tra i conduttori tv della rai e tra gli avanguardisti di Mediaset, non credo esista tra tanti cultori delle sorti del pianeta della propria famiglia uno solo che non si dichiari progressista e quindi riformista, qualcuno magari, per eccesso di agonismo, addirittura “rottamatore”, come amava presentarsi un ex presidente del consiglio.

pivetta

Chissà, alla ricerca di altre sponde, forse qualcuno tra gli assoldati di Casa Pound potrebbe ambire a definirsi reazionario, giusto per vanteria nei confronti dei camerati e per ostentazione. Nessuna traccia invece di coloro che un tempo si presentavano come “conservatori”, specie umana in doppiopetto, che ai miei tempi si riconosceva in Giovanni Malagodi, guida dei liberali italiani, che oggi non avrebbe dubbi a schierarsi con quel che resta della sinistra, festosamente accolto peraltro. Sulla rivoluzione e sui rivoluzionari silenzio assoluto.

Il tempo consuma e distorce le parole, spesso, come si dice, alla lettera, nel senso che vengono cancellate o violentate o progressivamente addomesticate e svuotate. Talvolta ci si può augurare che la pratica continui e che magari rapidamente travolga la “resilienza”, lasciandola alle sue funzioni chimiche (vedi la capacità di certi materiali di incassare i colpi), parola comparsa sulla scena in epoca di Covid, assurta a tale valore da finire in un acronimo tutto maiuscolo: PNRR. Piano nazionale per la Ripresa e la Resilienza, quello che dispone dei duecento miliardi del Recovery Fund.

Alla dissoluzione del nostro vocabolario garantiscono peraltro un qualificato contributo la tv e internet, insaziabili demolitori di qualsiasi tipo di linguaggio evoluto che preveda principali, coordinate e subordinate (non tocchiamo l’argomento “congiuntivo”: saremmo fuori tema), incuranti del fatto che parlare è la facoltà che fa dell’uomo un uomo. “L’uomo non sarebbe uomo, se non gli fosse concesso di parlare, l’essere dell’uomo poggia sul linguaggio”, scrisse Heidegger.

Il filosofo tedesco non stava a sottilizzare sul lancio delle parole come fossero pomodori o sullo strazio delle parole come fossero stracci. Era intellettuale di un altro secolo, privo ancora di internet e di quanto internet si è trascinato appresso, cioè un fiume indistinto e limaccioso di vocaboli. E’ capitato anche con parole cariche di storia come riformista e progressista, come riforme e progresso, parole rispettabilissime attorno alle quali si sono disputati conflitti secolari.

Rivolgiamoci a riformista e a riformismo, il movimento politico-ideologico, secondo le definizioni, formatosi in seno alla tradizione socialista in opposizione al rivoluzionarismo. Sembra semplice, ma sul rapporto o sull’insanabile contrasto tra riforme e rivoluzione si sono misurate le più belle menti di due secoli: Babeuf, Marx, Proudhon, Bakunin, Kautsky, Rosa Luxemburg, Labriola, Plechanov, Berstein, Lenin, Turati, Gramsci, Salvemini, eccetera eccetera, a ben vedere pure Togliatti e più tardi Giorgio Amendola e Giorgio Napolitano, la componente migliorista del Pci.

Vorrei ricordare, giusto per una medaglia d’onore a ciò che fu il mio breve Sessantotto, la “lunga marcia nelle istituzioni” del compianto Rudi Dutsckhe. Elenco casuale, che non dà conto della varietà e della profondità dello scontro tra chi preferiva una via bellicosa alla città ideale, una via sbrigativa per radere al suolo con un colpo risolutore ogni pilastro della società capitalista, e chi pensava che al grande cambiamento si dovesse giungere, “riforma dopo riforma”, fissando comunque l’obiettivo di un mondo più giusto, nel quale venissero esaltati la solidarietà, l’eguaglianza, la giustizia sociale, eccetera eccetera.

C’era chi sosteneva che la strada delle riforme, migliorando le condizioni di esistenza, indebolisse il movimento operaio, lo dividesse, ne compromettesse la volontà di lotta e le aspirazioni, e chi teorizzava la progressiva per quanto lenta e graduale emancipazione del proletariato, altrimenti condannato dall’immobilismo a soffrire le pene dell’inferno e dello sfruttamento in attesa del paradiso socialista.

Alla fine degli anni ottanta parte della sinistra italiana invocò la sua Bad Godesberg, località, come è noto, dove si ritrovarono a congresso i socialdemocratici tedeschi e dove il socialismo riformista scrisse il suo comandamento: “Concorrenza nei limiti del possibile, programmazione nei limiti del necessario”. Per quanto se ne sia chiacchierato a lungo, di Bad Godesberg in Italia non mi pare se ne siano viste.

Non ne sarebbero state necessarie, dal momento che i più comunque si sarebbero ritrovati senza colpo ferire sul carro dei riformisti e del riformismo, in un paese che, dopo aver vissuto uno straordinario ventennio di riforme, sta vivendo adesso lo straordinario quarantennio delle controriforme.

Tra gli anni sessanta e gli anni ottanta, tra il primo centrosinistra e la breve alleanza tra la Dc di Moro e il Pci di Berlinguer, il nostro paese si trovò a sperimentare riforme che tendevano a innovare il diritto di famiglia, la sanità, la scuola, il lavoro, il servizio militare (con l’istituzione del servizio civile), il sistema carcerario, che introducevano il divorzio, che regolamentavano l’aborto, che chiudevano i manicomi, che istituivano le Regioni, che attribuivano il diritto di voto ai diciottenni…

Silenzio invece a proposito di urbanistica, dai tempi di Fiorentino Sullo. Dagli anni ottanta in avanti, invece, i più accaldati riformisti misurarono il loro riformismo nella pratica mai doma di smantellare le riforme: vedi gli attacchi alla legge 180 in nome della pericolosità dei matti, alla legge 194 in nome dell’obiezione di coscienza, allo statuto dei lavoratori come se la facoltà di licenziare rappresentasse il viatico verso magnifiche sorti economiche, vedi l’attacco ininterrotto al sistema sanitario, attacco che ha dato i suoi frutti, ultimi quelli maturati ai tempi del Covid.

Eppure sono rimasti e restano “tutti riformisti”, parlamentari di destra e sinistra (categorie che sono altri bersagli di ogni forma di logoramento), assessori regionali, consiglieri, eccetera eccetera, come si diceva, così come furono “todos Caballeros”, per acclamazione imperiale, i nobili di Alghero, che avevano accolto festanti Carlo V, in sosta lungo le coste sarde durante il suo viaggio nel 1541 verso Algeri.

Dovessi citare ad esempio chi credo fosse un autentico riformista, mi riferirei a don Milani, che di fronte alle nefandezze della scuola di classe inventò la sua scuola aperta a tutti i figli dei contadini di Barbiana e poi, anche per interesse privato, citerei Franco Bisaglia (ne ho scritto una biografia e perdonatemi l’autocitazione: “Franco Basaglia. Il dottore dei matti”, Baldini Castoldi), che riuscì nell’impresa di smantellare l’istituto manicomiale, impresa iniziata (nel 1961) restituendo i comodini ai malati “ospiti” (o detenuti) nell’ospedale psichiatrico di Gorizia, aprendo le porte tra i reparti, rifiutandosi di firmare il registro delle contenzioni, demolendo le sbarre, aprendo i cancelli…

Un passo dopo l’altro, appunto. Restituire i comodini consentiva ai ricoverati di conservare quegli oggetti, una cartolina, una spilla, un taccuino, uno specchio, che erano stati sottratti all’ingresso e che rappresentavano timidamente la costruzione di una identità. Tornare alla vita.

A Trieste, chiamato dal presidente della Provincia, il trentenne democristiano Michele Zanetti, all’interno del San Giovanni, Basaglia organizzò la festa delle castagne, chiamò a esibirsi in spettacoli pubblici gli artisti più noti, creò la prima cooperativa di lavoro per i ricoverati, che furono regolarmente assunti… Dimostrò ai triestini e non solo ai triestini che anche i matti potevano vivere come tutti gli altri cittadini, non erano pericolosi come le leggi e un ottuso senso comune potevano lasciar intendere.

Memorabile fu la sfuriata dello psichiatra veneziano nei confronti di alcuni suoi assistenti che avevano occupato la Casa del marinaio, un immobile abbandonato da tempo, per allestire alcuni appartamenti per i matti. Un atto violento, lo definì Basaglia, un atto che aveva irritato la pubblica amministrazione e la gente di Trieste, con la quale era invece importante costruire solidarietà e condivisione. Come avvenne: al corteo di Marco Cavallo, il cavallo di ferro, legno e cartapesta costruito all’interno di un padiglione ormai divenuto atelier artistico, si accodarono in centinaia e fu la festa di tutti. Alla chiusura e quindi alla legge 180 (firmata da un senatore democristiano, Bruno Orsini) si arrivò così. Fu una rivoluzione vera, la prima per i matti dopo la Rivoluzione francese, quando Philippe Pinel inventò i ricoveri per i lunatici.

Oreste Pivetta



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  1. Rosario BerardiMa come si fa a far riferimento al ventennio riformista accreditandolo alla breve esperienza del cosiddetto compromesso storico omettendo completamente il ruolo dei Socialisti nelle riforme che hanno concretamente cambiato l'Italia.
    1 maggio 2021 • 12:25Rispondi
    • oreste pivettaInfatti parlo di un ventennio riformista, più o meno ventennio, dal primo centrosinistra (Nenni nella stanza dei bottoni) alla morte di Aldo Moro.
      9 maggio 2021 • 14:01
  2. Pietro VismaraIn che senso "resilienza" sarebbe un termine comparso in epoca di Covid? Sono almeno quindici anni che in ogni convegno, in ogni articolo, in ogni relazione di piano urbanistico quella parolina sbuca fuori. Se è arrivata anche nei piani del governo, ha percorso una lunga strada... Bella invece la definizione di quarantennio "controriformista". Molti cosiddetti riformisti infatti quello fanno: tornare indietro.
    9 maggio 2021 • 18:47Rispondi
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