21 febbraio 2021
I NON-LUOGHI DEL CORONAVIRUS
Il Covid-19, la filosofia e gli zombie
Se ripensassimo alle epidemie che hanno colpito l’uomo nell’arco della storia, a partire dai racconti nell’Epopea del Gilgamesh sino alla più articolata letteratura moderna, l’unica cosa certa è che l’alieno Covid-19 è uno dei personaggi di una serie infinita di pandemie. Camus aveva ragione. “La peste non si può predire, ma di sicuro tornerà”.
Per definizione gli storici sono gli esperti del passato, ma è il pensiero filosofico che, inserendosi nella discussione insieme agli altri saperi tecnici, può donare uno sguardo trasversale e profondo. Sappiamo dai tempi di Hegel che la filosofia prende il volo sul far del crepuscolo e che l’interpretazione di un evento epocale è illuminante quando la tragedia è consumata. È pur vero che l’impulso della filosofia, per tradizione, è stato quello di intervenire nella vita quotidiana della polis come un demone ispiratore difficilmente reprimibile.
Così, come è stato possibile lo “spillover”, ossia la capacità di virus e batteri di passare dagli animali agli umani, anche la filosofia può essere capace di fare il “salto di specie”. Questa è la sfida che Pierre dalla Vigna, docente di Estetica presso l’Università dell’Insubria di Varese-Como, lancia nel suo saggio “I non-luoghi del Coronavirus” (Mimesis Edizioni, pp 165, euro 15).
Leggiamo. Non più di cinquemila anni fa, tra le forme di vita parassitaria che sfruttavano le speciali condizioni create dalle colture irrigue si trovavano la schistosomiasi, la malaria e il dengue. A causa degli squilibri ecologici determinati dall’uomo per lo sfruttamento delle risorse e con il diffondersi dei contatti commerciali, militari e politici tra Stati (da Alessandro Magno nel 334 a.C., ai colonizzatori europei nel Nuovo Mondo nel XVI secolo, fino alla globalizzazione attuale), si sono diffusi i cosiddetti “morbi”, malattie assolutamente “democratiche”, che hanno decimato milioni di persone. “Al passar della falce che livella tutte l’erbe del prato” scriveva Alessandro Manzoni.
Vaiolo, morbillo, peste bubbonica, tubercolosi, sifilide, tifo, lebbra, antrace, colera, spagnola, febbre dei pappagalli, legionella, ebola, zika, Sars e molti altri “morbi” fanno parte della lista nera di alieni in cerca di nuovi corpi. L’approccio alle epidemie ferali di tutte le nazioni del mondo, in ogni tempo, ha seguito un copione tipico dell’elaborazione del lutto. Pierre dalla Vigna, a questo proposito, cita la psichiatra Elisabeth Kubler-Ross, che distingue cinque fasi comportamentali che si ripetono in ogni pestilenza: negazione, rabbia, negoziazione, depressione, accettazione.
La necessità di tenere sotto controllo e disciplinare le popolazioni nei casi di minaccia epidemica è un tema ricorrente per le istituzioni politiche fin dall’antichità. Il dilemma, tra il laissez-faire e il contenimento della natura, resta al centro del dibattito. Intervento coercitivo o prassi liberista? Forse l’aspetto più sorprendente di quest’ultima nostra pandemia è la prontezza con cui i cittadini sono stati, inizialmente, disposti a cedere libertà a lungo ritenute inviolabili negli Stati strutturalmente democratici. Mentre nel gioco da tavolo dell’Apocalisse, messo sul mercato con il nome Plague nel 2012 dalla società Ndemic Creations, lo scopo del giocatore consiste nel cercare di provocare un’estinzione di massa, nel gioco reale del Covid-19 il virus si sarà fatto beffa di noi appurando che qualcuno sminuiva la portata dell’epidemia.
Se fossimo stati pronti, e la sola lettura degli avvenimenti del passato avrebbe dovuto spingerci a tenere un piano pandemie nel cassetto, il virus sarebbe stato costretto ad entrare nella nostra società usando lo stratagemma del “cavallo di Troia”, invece ha addirittura trovato una porta aperta. Ad affrontarlo giovani reclute, come i “ragazzi del 99” sulla linea del Piave, con poco o nullo addestramento: molti infermieri appena assunti e medici neolaureati. Quando tutto questo succedeva, Capi di Stato come Johnson e Trump, filosofi come Agamben, intellettuali e virologi, avulsi dagli insegnamenti del passato, davano spettacolo in televisione e sui social. È più importante il PIL di un Paese o la vita dei più deboli? Una tragica battaglia.
Il saggio di Pierre dalla Vigna diventa ancor più coinvolgente quando l’autore fa riferimento alla “filosofia per gli zombie”. Citando una carrellata di film apocalittici, ci presenta le varie sfumature dei morti viventi, puri non esseri e vite di scarto senza cervello, che ci fanno riflettere sul cristallo sottile in cui stiamo camminando oggi. “La fragilità delle istituzioni nell’epoca del capitalismo avanzato e globalizzato mostra una grave impotenza.” Del resto, gli spettatori di un film zombie si aspettano la vittoria del contagio. Se vincessero gli umani, dobbiamo supporre, sarebbe tutto meno divertente.
Cristina Bellon
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