1 febbraio 2021

QUALE MILANO DOPO LA PANDEMIA?

Le scelte urbanistiche del passato e quelle future


battisti

All’inizio di gennaio ho ricevuto l’invito da parte del collega Gianni Dapri a partecipare, insieme Giancarlo Consonni a un dibattito sul tema delle trasformazioni urbane passate e future. Dapri ha organizzato l’incontro “per conto di Sinistra Italiana e SinistraxMilano, due pezzi della variegata sinistra milanese che si sta componendo anche in vista delle prossime elezioni comunali con la lista Milano Unita”

In questa prima puntata riporto e commento i temi proposti alla discussione. Si è partiti dalla constatazione che Milano ha scelto negli ultimi dieci anni, sotto la spinta di un modello di sviluppo trainato dalla attrattività e dalla competitività internazionale, una specifica impostazione della propria pianificazione urbanistica, sostanzialmente finalizzata a favorire l’attrazione dei capitali capaci di sostenere quel modello di sviluppo. Le grandi trasformazioni degli ultimi dieci anni sono figlie di questo modello.

Si tratta di un modello che già prima della pandemia, e a maggior ragione ora e nel futuro, ha prodotto un allargamento delle diseguaglianze e non ha determinato una adeguata spinta verso la transizione ecologica e la lotta ai cambiamenti climatici.

A fronte di questa situazione da più parti (associazionismo, sindacati, lo stesso sindaco che fa appello a una rivoluzione di paradigmi) si ammette la necessità di un cambiamento di attenzione e di paradigma del modello nella direzione di un cambiamento di politiche e ci si domanda: quale città è più adeguata a questo nuovo paradigma? Si sente parlare di città a quindici minuti: quali pro e quali contro? Quali altri modelli?

Inoltre, le scelte urbanistiche fatte nello scorso decennio sono coerenti con un cambio di paradigma sociale e ambientale? Quali sono le scelte più adeguate?

Quali cambiamenti di conseguenza sono proponibili alle scelte ad oggi compiute? Quali strumenti urbanistici ma anche amministrativi possono sostenere questi cambiamenti?

Naturalmente non è stato facile rispondere a queste domande ma credo che Consonni ed io siamo stati in grado, come abbiamo fatto in altre occasioni, se non a dare indicazioni di carattere amministrativo, di sviluppare delle critiche propositiva a livello politico.

Per quanto mi riguarda le considerazioni che ho svolto sono partite dalla constatazione che il cosiddetto modello Milano che abbiamo più volte discusso e criticato non esiste più perché è stato sospeso, se non definitivamente annullato, dalla pandemia.

Era comunque un modello debole basato su una bolla, su un’attrattività affidata a molti eventi, pochi dei quali dotati di una propria specifica tradizione come il Salone del mobile (1961) o le Settimane della moda (Firenze 1958 / Milano 1975) che dagli anni ’90 hanno comunque perso il proprio retroterra produttivo regionale che è stato decentrato.

Il Modello Milano era basato anche su un’attività edilizia di carattere speculativo che ha prodotto una gran quantità di abitazioni di lusso e di uffici e pochissima edilizia sociale per far fronte alla reale domanda abitativa dei cittadini. Ne abbiamo già discusso in due occasioni: il 7 novembre 2018 incontro organizzato da Gabriele Mariani a cui avevano partecipato, oltre a me, Giancarlo Consonni e l’assessore Rabaiotti e il 4 novembre 2019 nel mio studio con Roberto Camagni , Nicola Pasini e altri. (da 38’ 40”)

L’attrazione di capitali non ha sostenuto quello che è erroneamente definito un modello di sviluppo ma che è stato soprattutto un fenomeno di crescita nel quale Milano ha svolto un ruolo centripeto attraendo risorse senza ridistribuirle sia a scala territoriale che a livello sociale. Ha sfruttato risorse economiche, umane e ambientali che oggi la pandemia aggrava ulteriormente lasciandoci molti problemi da affrontare.

Le grandi recenti trasformazioni che sarebbero figlie di quel modello di sviluppo, per quanto mi riguarda come architetto con esperienza di progettazione anche a scala urbana, le riconosco come antiurbane perché, come City Life e Piazza Gae Aulenti, hanno introdotto delle grandi interruzioni nella morfologia della città e nel tessuto insediativo della Milano moderna, in contrasto con un tipo di architettura che fino agli anni Sessanta è stata esempio per gli architetti di tutto il mondo.

Una città di strade, piazze e isolati che è stata molto apprezzata anche da Jacques Herzog che ha dichiarato: Milano è una città con un’impronta urbanistica molto specifica: l’isolato che definisce i corsi, le vie, le piazze. Ogni edificio è parte di questo principio urbano e determina il proprio ruolo all’interno di questo schema. È il concetto urbanistico quasi ostinato dell’isolato che fa la bellezza e l’unicità di Milano. Perché dovremmo cambiarlo?”

La produzione di enormi diseguaglianze non è nota solo da oggi. Subito dopo l’inaugurazione di EXPO 2015 la Caritas Ambrosiana aveva pubblicato una ricerca, mai segnalata dai giornali e dai media, per documentare che dal 2008 quando Milano se l’aggiudicò, al 2015 quando fu realizzata, la povertà a Milano era cresciuta del 9% mentre nel resto del paese nello stesso periodo era leggermente diminuita. E oggi naturalmente dopo la pandemia, la forbice tra ricchi e poveri è ancora più aumentata.

Il dopo Expo è stato poi magnificato per i notevoli vantaggi turistici. Ma anche questi sono stati del tutto vanificati. Oggi con la crisi planetaria dei trasporti aerei sembra proprio impossibile recuperare e tutto quel mercato dello shopping del lusso ad esso collegato è in grave deficit insieme al settore alberghiero.

Quindi se c’è qualcosa da affermare rispetto al Modello Milano è che esso va rigettato senza tuttavia trascurare che bisogna purtroppo dotarsi dei mezzi per poter rimediare ai danni che ne sono derivati e non sono cosa da poco. Ora che gli eventi non si potranno più fare con le modalità del passato creando enormi assembramenti e che molti dei grattacieli per uffici rimarranno in gran parte vuoti per via del diffondersi del telelavoro come si potrà rimediare?

Non è più opportuno attrarre investimenti speculativi ma è necessario ripristinare un sistema produttivo reale aggiornandolo a livello 4.0 con il ricorso ai saperi delle nostre università sottraendo le nuove scienze all’uso che ne fanno le grandi corporation per fini speculativi e di controllo sociale, instaurando un uso democratico della risorsa strategica rappresentata dai big data di cui le amministrazioni già dovrebbero disporre, ma non ne fanno uso.

Per quanto riguarda la lotta ai cambiamenti climatici e la transizione ecologica è evidente che le amministrazioni di Pisapia e di Sala hanno detto e scritto molte parole ma assunto poche iniziative concrete e quelle poche più che altro finalizzate a ottenere consenso. A parte il fatto che a Milano si respira l’aria peggiore e poco si è fatto per ridurre le fonti di inquinamento, c’è poca consapevolezza a livello politico amministrativo di cosa significhi effettivamente affrontare la transizione ecologica.

In occasione di un seminario organizzato nel marzo scorso dalla Triennale per definire il titolo della XXIII edizione che si terrà il prossimo anno mi ha impressionato molto l’intervento del collega Panos Mantziaras che, a differenza della maggior parte degli altri relatori, ci ha sollecitato ad avere consapevolezza che la necessaria transizione ecologica non potrà̀ avvenire senza violenza. Anche se non dice in quale forma si manifesterà̀. Ha giustamente affermato che l’idea di poter prescindere dalla violenza nell’abbandonare i paradigmi del nostro tempo, con la rinuncia ai canoni estetici e razionali dei quali ci serviamo attualmente, è debole rispetto all’urgenza di una transizione ecologica che non può̀ essere che distopica.

Io aggiungo che in base ai canoni attuali si presuppone che ciò che è bello e razionale sia anche buono ma tale paradigma va sostituito con una nuova formulazione che consideri buono, bello e razionale solo ciò che è sostenibile e che quindi la progettazione sia essenzialmente progettazione della sostenibilità. Dei prodotti e delle filiere produttive a tutte le scale dal design all’architettura fino alla città e al territorio. Bisogna quindi riformulare anche il paradigma economico, politico, amministrativo e sociale.

Per confrontarmi con questa tematica dell’inversione di paradigma lo scorso anno ho organizzato in collaborazione con lo studio One Works un ciclo di incontri intitolato Progettare la sostenibilità che ha preso in considerazioni vari temi dalla produzione di una sedia di legno all’elettrificazione delle autostrade, dalla progettazione di un intervento C40 Reinventing Cities, all’adesione di Milano alla Dichiarazione di Emergenza climatica e ambientale. Ma abbiamo anche discusso di rendita urbana e di finanza sostenibile.

È ora evidente che affrontare queste tematiche al giusto livello di competenza non è facile ma la cosa più evidente è che ciò che manca è soprattutto la volontà politica di perseguire obiettivi di sostenibilità invece che attrarre soltanto capitali che hanno finalità di carattere speculativo e estrattivo delle risorse di cui Milano si è dotata storicamente.

A proposito di cosa fare cercheremo di dare qualche indicazione nella prossima puntata.

Emilio Battisti



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