14 dicembre 2020
L’ALLEGORIA DI SANT’AMBROGIO
Messaggi lanciati nella giornata di rito
ANNUNCI – Il 7 dicembre Milano non si è sottratta alla sollecitazione simbolica della celebrazione del santo patrono. Mettendo in campo alcuni messaggi – dedicati a sé, agli italiani e in qualche modo alla nostra relazione con le cose del mondo – per guardare al “dopo” nel carico della problematicità attuale. Ma anche confidando nella relazione, ineludibile nelle emergenze, tra tradizione e innovazione.
ALLA RICERCA DEL DÉMOS – Ecco compiuta l’allegoria di Sant’Ambrogio: cultura, salute, giustizia, economia e politica alla ricerca di un popolo partecipativo, di una società provata ma non domata, di una generazione di giovani fermati nella soglia di ingresso del mercato del lavoro per un anno, che ora chiedono di esprimersi.
Qui finisce la ricca cartolina del 7 dicembre.
Ora abbiamo la responsabilità di prendere per buoni tutti i messaggi e di metterli in fila e in connessione.
Per capire se ciascuno di questi mondi agirà – sempre per stare nella metafora – nel quadro di un’orchestra omogenea, con strumenti diversi e ruoli distinti, ma per suonare la stessa partitura con un’ispirazione il più possibile convergente.
Le prove di questa “sin-fonia” devono ancora cominciare. La tenuta sociale del 2020 è stata messa molto a prova. Commentatori e analisti scrivono giudizi spesso preoccupati. Ferruccio De Bertoli ha parlato di una borghesia eclissata (“chiusa nelle case come i signorotti al tempo della peste descritta dal Manzoni”). Dario Di Vico ha rintracciato progettualità ma anche smarrimento interpretativo delle imprese. Il mio collega Vanni Codeluppi scrive che l’ipotesi che il trauma apocalittico della società possa far replicare – come fu nel Trecento – un nuovo Rinascimento “va considerata altamente improbabile”. Tra le vittime di Coronavirus, Giulio Giorello ha lasciato il suo ultimo messaggio sul tema della durezza di “scendere a patti con il nemico invisibile” inducendo una comunità forte come quella ambrosiana ad alzare il tiro “riprendendo il contrasto ai grandi mali che affliggono il mondo”, dunque auspicando un ritorno di combattività civile che appare sopita. Quanto a Piero Bassetti – qualcosa di più che un commentatore – ha posto un tema di metodo: “Quanto a Milano Coronavirus ha oggettivamente fermato ogni tentazione di sopravalutazione”.
Insomma chi mette il termometro nelle pieghe della temperatura sociale complessiva pare raffreddare annunci ottimistici, segnalando il grande lavoro che serve a Milano (paradigmaticamente come per ogni città che traina valori e interessi territoriali) per fare una ricostruzione più difficile di quella prodotta dalle pur cospicue macerie della seconda guerra mondiale.
Come mostrano le belle immagini della tv attorno alla Scala del 7 novembre, Milano materiale è intatta, più lucente e seduttiva che mai. Ma quella valoriale ha bisogno di rimettere in fila memoria, obiettivi e modelli secondo uno schema “orchestrato”. E dunque sapendo che le tendenze abituali alla conflittualità proprie di una società borghese potrebbero qui produrre anche nuove disuguaglianze, nuovi egoismi, nuove entropie. Da quelle di soggetti paghi di un mercato globale, che risolve problemi di bilancio (agli innovatori esportatori, non a tutti) a quelli della maggiore attuale impresa di Milano (il sistema universitario) che potrebbe scegliere di mantenere un profilo sostanzialmente isolato (alle prese con rischi di immatricolazione dei fuorisede) così come – in altro schema – potrebbe sviluppare una public engagement consortile con una quota importante dedicata alla rinascita del modello Milano.
RIGENERAZIONE DI BRAND – TRA IL 2012 E IL 2017 HA OPERATO A MILANO UN TAVOLO DI FERVORE CIVICO attorno al tema della verifica di convergenza sui profili di brand della città, con tutte le voci in campo (imprese, grandi soggetti sociali e rete universitaria). Quel tavolo registrò il salto qualitativo identitario e di immagine di Expo. Ma mise anche in evidenza il rischio di far prevalere una lettura delle vocazioni rispetto alle altre. E soprattutto segnalò qualche limite di quella “sopravalutazione” che avrebbe significato smettere di pensare e modificare i progetti paghi di alcuni successi. Metodo che oggi viene invocato (ma poi difficilmente attuato) da molti contesti: a Roma, a Torino, a Napoli, tre estreme condizioni di bisogno di rigenerazione di brand ma anche tre giungle di metodo a causa di insufficienza di classe dirigente.
Ed è proprio un appannamento di classe dirigente a proporre lecitamente la domanda circa la forza di Milano di ritrovare un cammino di seria indagine su sé stessa.
Anche se la lezione della crisi pandemica arriva su questi punti di vista come un ammonimento alto, in un certo senso solenne, non eludibile. Per ripensare non tanto a formule comunicative di rilancio, ma alla condizione di tenuta di quasi tutti i paradigmi su cui il successo degli anni scorsi aveva trovato sponda.
Mobilità, velocità, attrattività. Ecco per esempio un terzetto di punta di quello schema entrato in crisi.
Non cancellato dalle storie prossime venture. Ma oggetto di ripensamenti radicali circa un nuovo approccio al tema della sostenibilità, al nuovo tema delle potenzialità tecnologiche, al nuovo tema del rapporto tra percorsi formativi (che cambiano nelle parti più avanzate del mondo) e caratteristiche del mercato del lavoro.
E lo stesso posizionamento di Milano nella geopolitica è ora oggetto di smarrimenti, lasciato ai venticelli capricciosi delle baruffe politiche. L’asse tra Milano e la Lombardia fin dove arriva (ridefinizione della città metropolitana compresa) e fin dove è diventato una tela di Penelope? Il traino alla filiera euro-mediterranea – tolta la convegnistica d’auspicio – cosa ha prodotto e cosa intende produrre? La tessitura inter-urbana europea lascia a Milano il suo ruolo oggettivo ma si legge assai meno quello di regia. Nel campo della globalità, perché l’internazionalizzazione di alcune reti economiche (scienza, energia, design, moda, eccetera) non sembra stingere su tutti i modelli di governance (dall’università, con qualche nota eccezione, ai processi comunicativi; dalla cultura politica allo sport)?
E da ultimo la fuoriuscita internazionale dei migliori ragazzi formati nei nostri atenei – fallita o quasi la regia della finanza – da chi è attentamente monitorata nell’interesse se non di un recupero almeno di un prezioso elastico intellettuale?
Le risposte, dopo Covid-19, non sono più di maniera. Dipendono da umiltà e metodo.
Stefano Rolando
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