3 luglio 2020

LA CITTÀ NELLA CITTÀ

Lambrate è meglio di Milano


Lambrate era un borgo di Milano con una sua storia antica, ma la sua storia più nota è quella degli anni ’70, una storia che anticipa molto della moda e dello sviluppo degli anni successivi. Un “amarcord” in suo onore.

ceriani

Un tempo città e fin dal 1923 territorio con status autonomo, oggi quartiere nella zona orientale di Milano (Municipio 3), Lambrate deve il suo nome all’acqua del fiume Lambro che lambisce il suo territorio. In epoca romana, grazie al sistema di navigazione lungo il Po, Lambrate è anche porto fluviale della vicina e potente Mediolanum. E nel 1162, in seguito alla distruzione di Milano per mano di Federico Barbarossa, la città conquista lo status di borgo imperiale, dove trovano rifugio i milanesi in esilio.

Ancora oggi le origini storiche di Lambrate si materializzano a futura memoria grazie alla Cappelletta, minuscola costruzione ritenuta un possibile santuario cristiano di epoca romana. Sul fabbricato, posto all’inizio di Via Conte Rosso, una targa in marmo ricorda come il 20 marzo 1905 vennero ritrovati “un colossale sarcofago che risalirebbe al IV secolo dopo Cristo; una scure non comune e una moneta di medio bronzo di Augusto” oggi conservati nella collezione Archeologica dei Musei del Castello Sforzesco di Milano.

Ma la città divenuta quartiere non è solo depositaria di un’eccezionale memoria storica lombarda, prima che milanese. Dal 1960, infatti, a Lambrate sono accaduti fatti, anticipatori di tendenze italiche e internazionali, che vale la pena di raccontare.

Lambrate patria dello scooter. Il fiume Lambro battezza con il proprio nome anche uno degli scooter più in voga negli anni ’60: la Lambretta. La Lambretta nasce come risposta milanese alla Vespa toscana. È, infatti, il 1946 quando a Pontedera viene prodotta la prima Vespa. L’anno successivo vede la luce la Lambretta, che, dopo la divisione in due fazioni tra Coppi e Bartali, schiera subito la popolazione tra convinti vespisti e ancor più fedeli lambrettisti. Campanilismi a parte, mentre la Vespa rappresenta da subito l’emblema dell’efficienza costruttiva ottenuta con industriale semplicità, la Lambretta è invece considerata come esclusiva tecnica industriale raffinata e complessa.

Dopo la parentesi degli anni ’50 ancora alle prese con la ricostruzione post bellica, sono gli anni ’60 a decretare il successo dello scooter. In quegli anni anche la Lambretta cerca un posizionamento di mercato innovativo come mezzo di trasporto per lavoro e famiglia evoluto rispetto alla bicicletta ed economico rispetto all’automobile.

La Lambretta, di proprietà della famiglia Innocenti, cerca nella réclame e nei testimonial un modello di affermazione assai moderno. Ecco quindi i famosi calendari Lambretta in cui i diversi modelli di scooter sono cavalcati da modelle avvenenti, le copertine dei dischi (la Ballata del Cerutti di Giorgio Gaber, canzone dedicata al furto di una Lambretta) e, a livello internazionale, pesino protagonista dell’iconico film Quadrophenia (1979), in cui la Lambretta è utilizzata come mezzo e marchio di fabbrica dei Mods (modernists), ribelli puliti e cattivi. Quadrophenia ha reso immortale il mito della Lambretta, ancor oggi è assai famosa nel Regno Unito.

Purtroppo sotto l’aspetto commerciale l’esito è stato di gran lunga meno felice. Il sogno visionario e futuristico della Lambretta (vedi filmato promozionale del modello Lui) si conclude in modo prematuro nel 1971. Una grande storia, mai pienamente baciata dalla fortuna, come per la sua procace testimonial Jayne Mansfield (bella e intelligente, se è vero che il suo quoziente intellettivo era 162, superiore a quello di Einstein). Nel 1967 un esemplare interamente placcato oro di Lambretta 150 Special Gold viene creato per lei. Purtroppo però l’attrice muore in un incidente d’auto poco prima di poter ricevere l’esclusivo e prezioso dono.

La Lambretta di Lambrate resta un mezzo di meccanica e design unico al mondo, un fascino nato nell’antico borgo storico imperiale.

A Lambrate si beve birra. Con l’acqua di Lambrate, dal 1996 – passato niente affatto recente oppure recentissimo a seconda dell’età del lettore -, si produce e beve birra milanese. Anche questa è una scommessa non banale e non facile, visto che a Milano da sempre all’ora dell’aperitivo era d’obbligo il bianchino, mentre il rosso è vino utile per accompagnare i tanti piatti milanesi che prediligono una generosa presenza di grassi saturi. Come certificato dal Maestro Gioânn Brera fu Carlo, ad esempio, le uova al tegamino si cuociono in lombardissimo burro, giammai nell’olio, seppur ottimo extravergine.

Il Birrificio di Lambrate ha dato i natali a una gamma infinita di birre. Dalla Montestella (chiara e luppolata) e alla Porpora alle decine di birre odierne, ognuna con nomi rigorosamente meneghini, anzi lambratesi. Ecco così la Ghisa, ovviamente scura come la divisa storica dei vigli urbani milanesi, la Magut, la Beccamort, il Domm, la Sant’Ambroeus.

Oggi però l’ultra locale ha forse esaurito il suo fascino ed ecco quindi il ritorno ai nomi anglosassoni (del resto il primo nome del burrificio è stato Skunky Pub) come l’ultima arrivata, la Punk 77 ispirata alla Double IPA del New England.

La birra artigianale Made in Lambrate piace sempre di più, e ha contagiato il panorama Lombardo se non addirittura quello nazionale. Merito anche della sapienza e qualità produttiva: uso bilanciato del luppolo gestito in laboratori di analisi dotati di impianto a osmosi per il trattamento dell’acqua lambratese…

A Lambrate lo sport non ha mezze misure: di peso o senza

A Lambrate è nato il modello di allenamento Zero gravity (su un esempio made in USA di sport acrobatico come Sky zone) dove si è tutti più leggeri e performanti grazie ad un sistema di reti ed elastici che quasi annulla la gravità. Quasi un allenamento a peso zero, completamente all’opposto di quanto da anni accade in Via Pini (sempre e rigorosamente a Lambrate) dove il Maestro Fausto Gobbi, pluri campione di Judo, insegna l’antica arte giapponese del Sumo. Gobbi afferma che per iniziare l’unico ostacolo è vincere l’imbarazzo di avere i glutei scoperti.

Le regole del Sumo sono molto semplici. Si deve spingere l’avversario all’esterno del cerchio magico (all’interno è la vita, fuori la morte). In alternativa l’avversario deve toccare il dohyō con una parte del corpo, compresi i capelli: ecco il perché del codino degli atleti dai capelli lunghi…

Nessun calcio, pugno o altre tecniche offensive tipiche del ring, tatami o gabbia degli sport occidentali.

Il Sumo è disciplina rituale fortemente tradizionale e iconica: prima del match viene sparso del sale (grosso, le cose piccole nel Sumo non sono ben viste) che costituisce un’antica purificazione per i lottatori.

Il Sumo ha una divisa essenziale, il mawashi (da non chiamare mai pannolone!), una cintura-vestito lunga 9 metri e del peso vicino ai 5 chili. Ma il Sumo, oltre che combattimento, è soprattutto rispetto. Al punto che a chi esulta dopo aver battuto l’avversario è annullata la vittoria per mancanza di rispetto verso lo sconfitto.

Regole preziose e nobili per i nostri sport e le nostre vite occidentali. A Lambrate il Maestro Gobbi insegna il Sumo Open, che è sumo sportivo, disciplina internazionale, in tutto identica a quella nipponica eccetto per l’introduzione delle categorie di peso (quindi non tuti gli atleti sono grossi e ciccioni) e l’accesso al dohyō anche alle donne. Due importanti innovazioni che potrebbero aprire al Sumo Open le porte delle Olimpiadi.

Scooter, birra e sport: bello vivere a Milano, ma forse a Lambrate è meglio.

Marco Ceriani



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