1 luglio 2020

BEETHOVEN ALL’AUDITORIUM

Il post-Covid dell’orchestra Verdi


Non posso non rendere onore all’Auditorium e all’Orchestra Verdi per il coraggio, l’eleganza e la professionalità con cui ha affrontato la ripresa post-covid. Del programma ho riferito la settimana scorsa – l’integrale delle Sinfonie dei Concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven, o Beethoven Summer, che impegnerà tutto luglio e agosto – e ricordo che è facilmente reperibile sul sito www.laverdi.org. Della serata inaugurale, mercoledì scorso, riferisco ora con una punta di sano orgoglio milanese, perché tutto fa pensare che simili prodezze difficilmente si riescano a realizzare altrove in Italia.

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Già all’entrata nel teatro si rimane colpiti dalle trasformazioni rese necessarie dalle norme sulla prevenzione, tese a evitare affollamenti: atrio e foyer, un po’ più disadorni, assumono un sapore ospedaliero reso però accogliente e gradevole dai giovani addetti che, con grande amabilità, si destreggiano fra la misura delle temperature e il controllo dei biglietti elettronici. Bar e guardaroba sono rigorosamente chiusi, manca anche la biglietteria – tutti devono arrivare già muniti del biglietto – così come mancano, suppongo per le stesse ragioni igieniche, i programmi di sala. Al loro posto colorati cartelloni provvedono a illustrare il programma agli ospiti, annunciando il quinto e ultimo Concerto di Beethoven, unica opera in programma per la festosa serata inaugurale con tanto di presenza del sindaco Sala.

Colpisce anche la trasformazione della sala: i posti occupati sono separati tra loro da due poltrone vuote e sono eliminate le file dispari, cosicché le poltrone disponibili diventano incredibilmente comode. E ancora la sorpresa dell’orchestra ridotta anch’essa alla metà (trentacinque elementi – 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani e una ventina d’archi – a fronte di un organico normale di circa ottanta elementi) che tuttavia riesce misteriosamente a esprimere un volume di suono non inferiore, almeno in apparenza, a quello della formazione completa. (Miracolo della perfetta acustica della sala, interamente foderata di pannelli di legno dolce, progettata da Enrico Moretti nel 1998 sul brillante recupero architettonico di Giancarlo Marzorati; e pensare che tutto nasce dall’improbabile idea di ristrutturare una vecchia sala cinematografica di periferia…). Insomma ci voleva molto coraggio e grande determinazione a ricominciare in queste condizioni, con tutto dimezzato e con un programma tanto ambizioso, e bisogna riconoscere che la scommessa è stata pienamente vinta.

Il Concerto in mi bemolle maggiore opera 73 – chiamatoImperatore da Johann Babtist Cramer contro il desiderio di Beethoven che voleva fosse chiamato semplicemente “Gran Concerto” – è una di quelle opere così note, amate, studiate, ascoltate, che se non la si esegue in maniera perfetta ed esemplare – e non basta, occorre sempre scavarvi qualcosa in più (talvolta … in meno!) perché non sia la banale ripetizione di precedenti letture – facilmente risulta deludente e rischia deplorevoli fiaschi. Affidare un’opera così impegnativa a un giovane di trentasei anni, sicuramente già molto affermato ma – circostanza tutt’altro che trascurabile – non propriamente di casa alla Verdi, che per giunta deve svolgere il doppio ruolo di pianista e di direttore d’orchestra, è stato sicuramente un ulteriore gigantesco azzardo. Alexander Romanovsky lo ha vinto alla grande e si è imposto non solo al pianoforte – dove si è districato con sicurezza, precisione e naturalezza in quell’inverosimile gioco di scale, trilli e arpeggi di cui è ricchissimo il concerto – ma anche nella concertazione, dimostrando di saper governare l’orchestra con pochi gesti e soprattutto con grande empatia.

Più volte ho criticato in queste pagine le prestazioni dei musicisti che suonano e dirigono insieme, ma devo riconoscere che Romanovsky, nonostante le difficili circostanze, ha dimostrato che si può fare. Per amore di verità devo dire che il pianoforte – necessariamente senza coperchio, con il pianista inevitabilmente seduto di spalle al pubblico – non ha potuto rendere al meglio, e che l’orchestra – cui Romanovsky dava indicazioni precise su tempi ed entrate ma necessariamente molto scarne sul fraseggio e sul colore del suono – non ha potuto esprimere tutto il potenziale che le riconosciamo da tempo. Tuttavia il carisma del direttore-pianista e la consumata esperienza dell’orchestra hanno avuto la meglio e ci hanno permesso di ascoltare un godibilissimo Imperatore: l’Adagio suadente ed estatico, vera oasi di pace fra due potenti e assertivi Allegri cui Romanovsky ha impresso un ritmo incisivo e travolgente (il Rondò finale), e quel delicatissimo passaggio fra secondo e terzo movimento trattato con una morbidezza e una poesia incantevoli.

Un sucessone, dunque, premiato con due bis che – date le circostanze – ci saremmo aspettati scelti nel ricchissimo catalogo beethoveniano. Fedele invece alle sue origini slave, il Romanovsky-direttore ha eseguito il delizioso Vocalise, celebre Canzone di Rachmaninov, opera 34 numero 10, nella versione per sola orchestra elaborata dallo stesso autore, e il Romanovsky-pianista ha concluso magistralmente con uno Studio di Skrjabin di stampo eccessivamente virtuosistico (peccato, perché il catalogo ne contiene tanti altri meravigliosi). Con il primo bis ha dimostrato di essere un ottimo direttore, con il secondo di avere una formidabile tecnica pianistica.

La settimana prossima, mercoledì 8 e giovedì 9, tocca ad Alexander Lonquich, che farà anche lui il direttore-pianista (da tempo è diventata una sua abitudine) e che del grande Ludwig eseguirà il Concerto numero 4 opera 58 in sol maggiore e la Sinfonia numero 2 opera 36 in re maggiore. Sarà un concertone da non perdere, ma si ricordi che bisogna prenotare in anticipo.

Concludo con un doveroso e speciale encomio al rinnovato Quartetto Indaco che, come annunciato, la settimana scorsa ha eseguito al MA.MU. – in stato di assoluta grazia – il Quartetto in fa maggiore di Ravel e il Quintetto in sol maggiore opera 111 di Brahms. Due esecuzioni perfette, emozionanti e fortemente partecipate dai giovani musicisti che hanno raggiunto un magnifico suono e un amalgama esemplare, e che sono entrati a pieno titolo nel gotha dei più importanti Quartetti italiani.

Paolo Viola



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