29 giugno 2020

IL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE

Come valutare benefici e costi?


Chi tra i lettori non ha avuto, in questi mesi, una discussione accesa con parenti e amici sull'equilibrio costi/benefici del lockdown e del distanziamento sociale? Giorgio Origlia ci aiuta a razionalizzare il buonsenso del "principio di precauzione".

 

Origlia

Basta aprire qualsiasi quotidiano per rendersi conto che la guerra al Coronavirus lascerà una coda di devastazioni e macerie che, come sempre accade, solo a guerra finita si riuscirà a valutare. Siamo inondati di dati parziali, che per questo cito ma volutamente non riporto, e  solo in autunno avremo un quadro più chiaro di quello che Ezio Mauro, nel suo libro Liberi dal male, chiama il “secondo contagio”. Tuttavia vale la pena di domandarsi sin da ora come questo “secondo contagio” è stato, e sarà, gestito.  

Nessuno nasce imparato”, diceva Totò. Infatti di fronte a eventi gravi, improvvisi e non gestibili in base alle conoscenze scientifiche vigenti, come è stato il caso del Covid-19, ciò che già si sa non basta. Suppliamo allora a tale mancanza con il buon senso, che ha una sua formulazione rassicurante e normalizzata, anche se poco nota, nel cosiddetto “principio di precauzione”.  

Il principio di precauzione è recepito dai regolamenti internazionali, infatti il testo della Commissione nominata dalla CE del 2 febbraio 2000 e con la l.11 febbraio 2005, n. 15, così recita: “Il principio di precauzione può essere invocato quando si verifica un’emergenza che comporta un possibile pericolo per la salute umana, animale o vegetale, ovvero per la protezione dell’ambiente nel caso in cui i dati scientifici non consentano una valutazione completa del rischio”. Ed è recepito anche dalla legislazione nazionale, in particolare in Italia (D. Lgs. n. 152 del 3 aprile 2006, c.d. Codice dell’Ambiente (art. 301)), dove è fortemente presente in tutte le attività regolate dalla PA, e in Francia.

Il principio di precauzione prevede, in una situazione di emergenza, la messa in atto da parte di chi governa di qualsiasi provvedimento si renda necessario per minimizzare il danno, applicando, tra gli altri, questi tre criteri fondamentali: la proporzionalità tra le misure prese e il livello di protezione ricercato;  la non discriminazione nell’applicazione delle misure;  l’esame dei vantaggi e degli oneri risultanti dall’azione o dall’assenza di azione.

Partendo proprio dai tre criteri fondamentali suddetti domandiamoci dunque come tale principio sia stato applicato, soprattutto nella nostra regione.

1. La proporzionalità tra le misure prese e il livello di protezione ricercato. Degli errori madornali commessi nella prima fase dell’emergenza, come le misure disastrose prese nella protezione degli anziani ricoverati in case di cura in Lombardia, o il ritardo nel chiudere alcune zone del bergamasco, non ci occupiamo, perché su di essi sono in corso inchieste giudiziarie – che tra l’altro si ispirano proprio al principio di precauzione. Occupiamoci invece dei provvedimenti di prevenzione fondamentali e più a lungo termine, il lockdown e il distanziamento sociale, applicati per più mesi  e peraltro non solo in Italia, al fine di ridurre il più possibile la perdita di vite umane. 

Si sapeva già che i due provvedimenti combinati, considerando che il  modello consumistico della nostra economia si fonda sulla libertà di movimento di cose e persone, avrebbero assestato un grave danno all’economia; non tanto a quella finanziaria, della quale non mi preoccuperei, quanto a quella reale, che per intenderci dà di che vivere a chi vi lavora, e dalla quale dipende la salute e il benessere di milioni di persone. I danni provocati da questo “secondo contagio”, come lo chiama Ezio Mauro, sono noti, ma si potranno quantificare solo tra qualche mese. A noi interessa valutarli nell’ottica del suddetto principio di precauzione, in particolare del primo criterio, quello della proporzionalità.

Una stima prudente dice che in Lombardia il 30% delle attività economiche sono state seriamente danneggiate, molte fino a dover cessare del tutto l’attività. Ma non solo: sono vuote le scuole di ogni grado e  le università, basta farsi un giro a piedi per Milano, il paesaggio di vetrine vuote e edifici chiusi è anche visivamente desolante . Ogni edificio o spazio disabitato e chiuso significa posti di lavoro persi, persone senza reddito, famiglie in difficoltà, ma anche bambini e ragazzi senza scuola e senza contatti sociali.

E  il distanziamento sociale si vuole sia mantenuto anche nella cosiddetta fase 3, imponendo rocambolesche organizzazioni spaziali nelle scuole, nell’uso dei mezzi pubblici, nella partecipazione a tutte le attività di lavoro e di svago in odore di assembramento, in sintesi il proseguimento per altri mesi del danno economico e sociale che ha caratterizzato questi tre mesi precedenti. Senza contare che, a settembre, centinaia di migliaia di spostamenti saranno generati dalla ripresa delle scuole, spostamenti che non saranno riassorbibili dai mezzi pubblici con gli attuali parametri di distanziamento, né dai mezzi a due ruote, e produrranno un preoccupante incremento del traffico nell’area metropolitana milanese e del conseguentemente inquinamento.

L’organizzazione degli spazi negli edifici e nei mezzi di trasporto forniva una copertura appena adeguata alle esigenze in assenza di regole di distanziamento. Ma lo spazio non è elastico, e trovarselo più che dimezzato da nuove regole di comportamento crea enormi criticità nel suo utilizzo. A questo punto domandiamoci, attenendoci al primo criterio del principio di precauzione: i danni provocati dal lockdown e dal distanziamento sociale sono proporzionati al livello di protezione ricercato? 

Certamente la diffusione del male è stata ridotta, ma c’è da riflettere sul fatto che  in Svezia, dove non c’è stato né lockdown né distanziamento sociale, il che ha comportato un’incidenza di casi mortali certo significativa (43 vittime su 100 mila abitanti), ma pari sì e no a un terzo di quella lombarda, il costo economico e  sociale delle misure prese è stato enormemente minore. Forse il sanguinoso sacrificio imposto a milioni di lavoratori era proporzionato allo scopo all’inizio dell’epidemia, diciamo fino a marzo, ma dopo?

2. La non discriminazione nell’applicazione delle misure. Sta venendo fuori ora in tutta la sua gravità anche la discriminazione che il lockdown e il distanziamento sociale hanno creato tra attività economiche diverse e relativi addetti, tra diverse categorie sociali e tra diverse classi di età. 

Per i tre mesi di lockdown il commercio di beni alimentari o farmaceutici, dalle grandi catene di distribuzione ai negozi di quartiere alle aziende di commercio on-line, così come l’impiego nel sistema sanitario, hanno viaggiato a pieno ritmo, garantendo oltreché buoni redditi di capitale anche la continuità di lavoro ai dipendenti, mentre tutto il resto era fermo. Che ciò abbia creato discriminazione alimentando rendite di posizione fino all’abuso (l’usura è in crescita) è ovvio, ampliando ulteriormente la forbice tra privilegiati e danneggiati. 

Tutte le attività di servizio all’istruzione invece sono ferme, così come  i relativi dipendenti o fornitori (amministrazione, pulizie, mense), con trattamenti salariali molto diversi tra loro. Gli insegnanti ad esempio sono stati impegnati “a discrezione” nell’attività quotidiana, il che vuol dire alcuni molto e altri niente, a piacer loro, ma tutti con stipendio pagato. 

Un’elevata discriminazione ha colpito i bambini e gli studenti. Mentre i cani potevano uscire, fornendo anzi un’ottima scusa ai padroni per fare altrettanto, i bambini sono rimasti obbligatoriamente chiusi in casa per più di due mesi, privi di qualsiasi relazione sociale esterna alla famiglia (anche i nonni esclusi), affidati a un’istruzione frammentaria e volontaristica, in una situazione di privazione tanto più grave quanto più scarse erano le risorse di spazio in casa, di attenzione da parte dei genitori, di hardware per i contatti on-line. Ad esempio so che in un Istituto tecnico di Quarto Oggiaro un terzo degli studenti non avevano un computer proprio, alcuni neppure lo smartphone, per seguire le pur rare lezioni on line, di fatto perdendo molti mesi di percorso formativo.

Non ci dovrebbe essere bisogno di uno psicologo per immaginare che la discriminazione sociale e l’isolamento sono fonte di patologie psichiche e sociali, tanto più probabili quanto più accompagnate da problemi economici. E la salute psichica non è meno importante di quella fisica.

Aspettiamo di avere dati attendibili sull’entità del problema alla fine dell’anno, quando ci renderemo meglio conto di quanti danni farà soprattutto l’ostinazione a tenere il distanziamento sociale nelle scuole e sui mezzi pubblici. Ma, anche senza dati, è certo che la falsa democraticità dello slogan “tutti a casa” copre un grave allargamento della forbice tra privilegiati e danneggiati, non compatibile con il secondo criterio del principio di precauzione suddetto.

Tanto più se vogliamo mettere in conto  la discriminazione che in questi mesi c’è stata nei confronti di tutti i malati non da Coronavirus. Basti pensare ai malati oncologici che facevano riferimento alle due strutture di eccellenza a Milano (Istituto Tumori e IEO), il 36% dei quali, anche perché provenienti da altre regioni, ha dovuto interrompere il follow-up per due mesi, tempo nel quale un male curabile può diventare incurabile; o a quanti sono affetti da malattie cardiovascolari latenti: in quel periodo pochissime nuove diagnosi sono state fatte. 

3. Esame dei vantaggi e oneri dall’azione o dall’assenza di azione. Veniamo dunque al punto.  In tutte le considerazioni finora fatte ciò che manca è un termine di confronto tra benefici probabili (contagi evitati, quindi vite forse salvate) e i costi, invece certi, che sin qui abbiamo elencato. Il principio di precauzione impone di affrontare un tabù:  bisogna poter pesare sulla bilancia da un lato il valore del rischio di perdita di vite umane, e dall’altro il valore di tutti i sacrifici di salute, benessere economico, benessere sociale che si chiedono alla popolazione per evitare o minimizzare tale rischio. 

Diamo il valore 100 alla vita di una persona che, se si ammalasse di Coronavirus, rischierebbe la vita: quante vite alla fine sarebbero salvate contando solo sull’obbligo delle mascherine nei luoghi chiusi? E quante in più mantenendo il distanziamento sociale?  E quanto è il valore che diamo allo stress psicologico subito da soggetti fragili, bambini, malati? Alla sofferenza e alla povertà indotta dalla perdita di lavoro per tutti i componenti della famiglia? Alla perdita di contatti sociali e affettivi da lockdown e da distanziamento sociale? Al rischio di peggioramento della salute fisica per inaccessibilità del sistema sanitario per cure ordinarie, danni prevedibili e certi, moltiplicati per i milioni di persone che ne hanno di fatto sofferto e ne soffriranno? 

Solo il confronto tra questi valori ci direbbe se il vantaggio del lockdown e del distanziamento sociale c’è stato, ma, soprattutto per quest’ultimo, se abbia senso continuarlo. Dunque non abbiamo alternative: attribuire valore incalcolabile alla vita umana e rifiutarsi di metterlo a confronto con i sacrifici altrui è legittimo, ma allora dobbiamo rifiutare in toto il principio di precauzione, perché esso implica espressamente la messa in atto di tale confronto. 

Per essere coerenti allora, per evitare le migliaia di morti e feriti all’anno per incidenti stradali, dovremmo sempre limitare a 50km/h la velocità consentita su qualunque tipo di strada, autostrade comprese. E per evitare le migliaia di morti imputabili all’abuso di alcool dovremmo tornare ad applicare, come negli USA degli anni ’20, il proibizionismo totale sulla vendita di alcoolici di qualunque gradazione. Lo faremmo mai?

Se invece crediamo nella giustizia sociale implicita nel principio di precauzione dobbiamo applicare anche il terzo criterio, ovvero l’esame dei vantaggi e degli oneri per i provvedimenti da prendere, il che implica di dover affrontare il tabù del valore da dare alla vita umana, per poterlo confrontare con il valore di tutti i tipi di danni e sofferenze ad altri che comporterebbe la sua tutela.

Non vorrei essere io a dover attribuire un valore alla vita umana per poterlo mettere a confronto con tutti i tipi di sacrifici e sofferenze chiesti alle persone sane per salvaguardarla, ma una cosa è certa: prima della prossima epidemia qualcuno dovrà decidersi a farlo.

Giorgio Origlia



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali


  1. STEFANO COZZAGLIOSe si sono salvate molte vite umane con il blocco di tutte le attività ora bisogna pensare ad un modo per potere far ripartire l'economia . E non è certo continuando ad inventare regole pseudo liberatorie che questo potrà avvenire . Se non si recupera la possibilità completa di interrelazione , di una struttura scolastica funzionante , di una amministrazione efficiente , di un supporto sanitario efficiente a tutti i livelli e per tutte le malattie non ci sarà nessuna ripresa , ma solo un lungo coma con risultati infausti per tutti
    1 luglio 2020 • 09:23Rispondi
  2. ugo targettiNella valutazione del rischio bisogna considerare l’evoluzione del danno. I danni da lockdown sono riparabili. La morte no. In alcuni paesi il lockdown può portare alla morte per fame; non in Italia (se non nella retorica della peggiore politica). La morte per mancanza di cure per patologie non Covid, fenomeno la cui dimensione è tutta da valutare, è una falla del sistema sanitario, riparabile. Possiamo avere fiducia o meno nelle politiche di tutela e rilancio delle attività economiche del Governo, ma siamo comunque nella prospettiva della riparabilità del danno. Difficile dunque valutare il valore della vita di un individuo a fronte dell’interesse della collettività in termini di riduzione (temporanea) della qualità di vita, anche se della parte più debole. Per la valutazione del rischio l’autore porta gli esempi della sicurezza stradale e della mortalità per abuso di alcol, sottintendendo che una quota di morti è da mettere in conto nell’organizzazione e dei modi di vivere della società. Non mi pare che gli esempi calzino. La politica della mobilità dovrebbe effettivamente porsi l’obbiettivo di 0 incidenti mortali, investendo in sicurezza della viabilità, tecnologia dei mezzi di trasporto e anche attraverso il controllo della velocità; alcuni paesi europei si sono posti questo obbiettivo (credo anche la Svezia). Quanto all’ abuso di alcool si tratta di una scelta personale che non mette a rischio la vita degli altri (se lo fa l’abuso è punito). Come sempre l’applicazione del principio ha dei limiti che il ragionamento al limite evidenzia: se la valutazione fosse tra una sola vita a fronte del disastro economico de una intera nazione, come decidere? Chi decide? E se la vita in questione fosse di un proprio caro? Secondo la concezione ebraica chi salva una vita salva un mondo. Mi sento di condividere questa concezione.
    5 luglio 2020 • 11:58Rispondi
Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. Tutti i campi sono obbligatori.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.


Sullo stesso tema











27 aprile 2021

IL “CONSULTELLUM” DELLA GIUNTA DI MILANO

Luca Beltrami Gadola



25 aprile 2021

CASA DOLCE CASA?

Pietro Cafiero



24 aprile 2021

MACRON IN SALSA AMBROSIANA

Marco Garzonio


Ultimi commenti