14 giugno 2020
FARE PRESTO PURCHÈ SIA?
Una riflessione sul caso di Corso Buenos Aires
Usciremo migliori dall’esperienza del Coronavirus? È auspicio di molti, visto come abbiamo reagito per mesi alle limitazioni alla libertà individuale: sono stati accettati, nel complesso – per paura e per civismo -, gli interventi emergenziali, anche se penalizzanti. Forse però non ne usciremo migliori se, sull’onda emergenziale, realizziamo in tutta fretta e male interventi come lo stravolgimento di corso Buenos Aires.
Estendere verso Loreto la bellezza e la nobiltà di Corso Venezia è sempre stato il sogno non solo di ogni architetto ma di ogni milanese, avvertito del sacrificio dell’alberatura di un viale chiamato a collegare per l’antica strada di Loreto la Villa Belgioioso del Pollack, divenuta poi Reale, con la Villa di Monza del Piermarini.
Intervenire su una delle passeggiate commerciali più lunghe d’Europa, internazionalizzata nel nome in occasione dell’Esposizione Internazionale del 1906, quella dell’apertura del Sempione che apriva Milano all’Europa, per richiamare, come Piazza Argentina e Piazza Lima, i paesi del Sud America dove maggiore era stato il tributo dell’emigrazione italiana, meritava certo una riflessione più ampia, aperta alla città tutta.
Una strada, corso Buenos Aires, direttrice antica per le Venezie, carica di memorie letterarie, nobilitata dai caselli di Porta Orientale del Vantini, chiusa alla vista dell’arco alpino dall’improvvido edificio in Piazzale Loreto tra Viale Monza e Via Padova, merita ben più della realizzazione di un intervento settoriale, in quanto obbliga ad affrontare il tema di una complessiva qualità urbana.
Il tema non è quindi quello della critica ad una ciclabile scombiccherata, per i mille intralci dati dalla complessità funzionale e dalle modalità d’uso del corso, ma all’idea stessa dell’intervento. È spia di questa inconfessabile debolezza ideativa, la giustificazione di un intervento che sottrarrebbe 3000 utenti in bici al giorno ad una metropolitana, oggi per tre quarti vuota, che nelle ore di punta ha trasportato, e tornerà presto a trasportare, 90.000 passeggeri all’ora.
Tornare suoi propri passi è difficile – soprattutto per avere solleticato come salvifica l’idea di un modo di muoversi sereno, raramente dolce se non nei fine settimana, capace di dare un contributo decisivo alle esigenze di una mobilità, inevitabilmente plurimodale, propria di una città di rango mondiale come Milano e di una Città metropolitana centro di una più vasta regione urbana come la Lombardia -, ma è ragionevolmente dovuto, cominciando dal non estendere l’errore oltre Loreto.
Anche solo trattando di mobilità urbana, ogni intervento settoriale, sia pure ammantato di nobili e giustificati principi (la salute, la purezza dell’aria…) è di per sé sbagliato, in quanto occorre guardare al sistema nel suo insieme, al come le singole componenti possono accordarsi, limitando gli inevitabili conflitti.
Insieme alla qualità del suo paesaggio urbano, la possibilità di garantire ricchezza di relazioni a strati sempre più larghi di popolazione è il carattere distintivo di ogni città. Occorre comprendere come contemperare la doppia esigenza di garantire accessibilità e qualità urbana, sfuggendo alla trappola semplificatrice del ricercare qualità urbana penalizzando la circolazione e a quella, funzionalista, che pretende di affrontarlo con interventi parziali, e non sistemici, che portano ad una vana ricerca di equilibrio.
Quella che deve essere soprattutto esplorata è la possibilità di una configurazione nuova degli spazi urbani, rimodellando le regole di accesso alle diverse parti della città. Non si tratta solo del centro storico, protetto da un road pricing non estendibile oltre, ma di un principio che riguardi tutti i quartieri della città: ciascuno con configurazioni morfologiche diverse, diverse complessità funzionali, da trasformare in altrettante Isole ambientali entro le quali possono convivere i diversi mezzi di trasporto con velocità consone al passo del pedone.
Un progetto vasto, che superi i limiti specialistici degli esperti di traffico, obbligato ad un approccio che sviluppi i temi propri del contesto in cui si opera attraverso la lettura della qualità dell’edificato e degli spazi aperti, strade e piazze, luoghi di sosta e di transito: un’analisi finalizzata al progetto che guardi insieme alla morfologia urbana, all’organizzazione funzionale e ai comportamenti di quanti vi abitano. Gli interventi di disegno che inducono, al di là di ogni segnaletica, moderazione del traffico, fanno sì che ogni strada risulti intrinsecamente sicura pur nella compresenza delle diverse categorie veicolari.
È entro questi ambiti, Isole ambientali o Quartieri che siano, che la mobilità ciclabile deve potersi sviluppare con la medesima logica che induce la continuità dei percorsi pedonali, creando una rete continua di itinerari sulle strade secondarie di quartiere, secondo il livello di protezione e la frequentazione, fino alla confluenza con le piste ciclabili interquartiere e ponendo attenzione ai punti di conflitto con la rete autoveicolare, risolvibili con un disegno capace di garantire la massima sicurezza ad un’utenza debole e, insieme, non penalizzante per un traffico fluido, necessario anche sotto il profilo ambientale.
Entro Città metropolitana, rispondere all’emergenza in termini strutturali imporrebbe, ma è problema antico, operare un riequilibrio tra trasporto collettivo – eccellente entro Milano e inaccettabilmente carente nei comuni esterni -, e un trasporto individuale, oggi coadiuvabile, ma non sostituibile, da sharing, cicli e monopattini, utili in città ma ininfluenti per relazioni di più ampio raggio che portano ad oltre 480 mila gli ingressi e le uscite quotidiani.
Essendo vana la speranza di fermare ai terminali urbani della rete delle metropolitane il traffico in ingresso, perché da anni è dimostrato che gli attuali 15 mila posti auto dei parcheggi di interscambio possono, al massimo, raddoppiarsi (sempre che, come a Comasina, non si vanifichi il prolungamento di M3 con un parcheggio brutto e di dimensioni irrisorie, rispetto a quello a suo tempo progettato e predisposto, anche strutturalmente, insieme alla stazione), sarebbe decisivo un vasto accordo inter-istituzionale.
Tramite questo, ad ogni stazione del Servizio ferroviario regionale si realizzino altrettanti centri d’interscambio – intesi come condensatori urbani e centri di servizi partecipi, soprattutto, di un progetto di riequilibrio tra funzioni urbane entro Milano e nei comuni circostanti, capaci di invertire una tendenza tutta centripeta sul capoluogo, disfunzionale sotto l’aspetto urbanistico e trasportistico.
Gian Paolo Corda
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