17 maggio 2020

“FARE CITTÀ”. LA GRANDE AMNESIA DELLA POLITICA

La "forma” urbana ritorni tra i grandi obiettivi della mano pubblica


La pianificazione urbana è stata troppo a lungo delegata all’egoismo degli investimenti privati, mentre il pubblico si nascondeva dietro una presunta impotenza o incapacità di agire. “Fare città” è ancora possibile; ma ci sarà la volontà politica di mettere in pratica quest’ideale?

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Ogni parte omogenea di un organismo urbano è fisicamente conformata su uno specifico modello relazionale, ovvero su modi peculiari di concepire e rendere praticabili i rapporti fra tre sfere: privata, collettiva e pubblica.

Un tratto distintivo è il sussistere o meno di relazioni comunitarie. Per rimanere all’occidente contemporaneo, il dissolversi della comunità o il suo ridursi a fatto residuale – processi che, a seconda dei contesti, si sono consumati su un arco temporale più o meno lungo – distingue un prima e un dopo negli assetti fisici dell’habitat. La differenza, spesso abissale, fra gli insediamenti storici e gli assetti insediativi contemporanei ha qui la sua ragione prima.

Ma va anche messa in conto l’influenza della tecnica. Basti pensare al peso che le innovazioni nei trasporti e nelle telecomunicazioni hanno avuto e continuano ad avere sui processi concomitanti di dispersione e di concentrazione, che caratterizzano le dinamiche insediative nei contesti metropolitani. Tali innovazioni, da un lato, hanno favorito lo sprawl e l’allentamento dei legami fra spazi privati e spazi pubblici, dall’altro hanno spinto a forme di densificazione esasperate la cui caratteristica dominante è la compresenza nell’indifferenza.

Dal secondo dopoguerra in poi, con l’eccezione significativa di alcune realizzazioni di quartieri di iniziativa pubblica, si registra una sostanziale incapacità, quando non disinteresse, della Pubblica Amministrazione a orientare le forme insediative. Così, in nome di una malintesa idea di libertà, si è lasciato che fosse l’iniziativa privata a decidere gli assetti degli insediamenti. Così, sempre in nome della libertà, la portata politica intrinseca nel quadro relazionale definito dalle forme insediative è uscita non solo dall’agenda, ma addirittura dall’orizzonte di chi amministra la Cosa pubblica. Eppure, nel modo di coniugare le relazioni fra la dimensione privata e la dimensione pubblica dell’abitare sta non poco della sostanza politica delle relazioni sociali, quella di maggiore tenuta nel tempo.

Il mancato presidio di un tema squisitamente politico come il “fare città” sta però, da tempo, presentando il conto. In tutta risposta la politica, in specie quella tentata da una guida populistico/autoritaria delle masse, punta a capitalizzare la regressione diffusa nella cultura del convivere e a strumentalizzare l’insicurezza – o la sua percezione – che le forme insediative disperse finiscono per alimentare.

Né questo è l’unico nodo che viene al pettine. Ci sono almeno altre quattro questioni, poco o per nulla presidiate: la riduzione della qualità della vita indotta dal tempo assorbito dagli spostamenti obbligati; l’entropia generata da inadeguate politiche dei trasporti pubblici (a loro volta costrette a fare i conti con assetti insediativi modellati sulla mobilità privata); il peso che sui bilanci pubblici hanno la realizzazione e la gestione di ipertrofiche reti infrastrutturali primarie, i cui costi non sono coperti dagli oneri di urbanizzazione; gli effetti devastanti legati al consumo di suolo. Il risultato è l’accumularsi di effetti negativi destinati a pesare a lungo sui modi di vita delle generazioni future. E questo mentre la politica finisce per essere imbrigliata dalla sua stessa incapacità di governare le trasformazioni insediative.

Certo: nelle insufficienze della politica si riflette un decadimento culturale generale: il venir meno di una consapevolezza condivisa sulle relazioni che intercorrono fra modi di abitare, assetti degli spazi pubblici e privati e convivenza civile. La delega pressoché totale ai tecnici è figlia di questo decadimento, contro cui la promozione della partecipazione può ben poco se non è sorretta da una riappropriazione dei termini delle questioni.

Non è sempre stato così. A metà degli anni ottanta del 1800, per fare un esempio, a Milano un imprenditore come Giovanni Battista Pirelli era in grado di discutere con competenza della dimensione degli isolati previsti nel Piano Beruto. Per non dire di quante e quali discussioni si ebbero, in quegli stessi anni, in Consiglio Comunale a proposito dell’apertura di Via Dante.

Quanto poi all’impotenza dei pubblici poteri, si tratta di una narrazione imbastita da chi ha responsabilità di governo per crearsi un alibi. Ci sono state delle fasi in cui a decidere la città è stato soprattutto il potere politico. Basti pensare alla Parigi del Prefetto Haussmann o alla Milano fascista: due guerre urbanistiche condotte a colpi di piccone demolitore: nel primo caso, per fondare la città borghese sul corpo della città d’antico regime; nel secondo caso, per fare spazio nel cuore urbano a un nuovo complesso di direzioni aziendali e finanziarie e per mettere “a ferro e fuoco” (Cesare Albertini, 1931) i quartieri centrali a elevata presenza popolare così da instaurare la città corporativa. Questi due esempi ci dicono che, quando intende perseguire un obiettivo con determinazione, la politica trova il modo di governare le trasformazioni.

Ovviamente, tanto più gli obiettivi sono radicali tanto maggiore è il potere di cui occorre disporre; il che, nelle forme di governo non dispotiche, passa attraverso il consenso. Ma negli ultimi quattro decenni chi ha avuto ed ha la responsabilità della Cosa pubblica non ha nemmeno provato a mettere a punto obiettivi che andassero nel senso del “fare città”. È questo perché integrazione, inclusione e coesione sociale – e affabilità e bellezza civile – non sono state viste come finalità prioritarie da perseguire nelle trasformazioni, fisiche e funzionali, dei contesti urbani e metropolitani. Il vuoto di analisi e di proposte della politica ha così spalancato la strada agli operatori privati, cui sono state vieppiù delegate le decisioni su caratteri e forme delle trasformazioni urbanistiche. Non poco del destino delle generazioni future è lasciato nelle loro mani, senza che questo costituisca motivo di scandalo.

Il momento drammatico, di discontinuità della storia mondiale, che stiamo vivendo ci impone più che mai di trarre bilanci e di esplorare vie d’uscita per un cambiamento di rotta.

Per limitarci a Milano-città, è ormai il tempo di tirare le somme circa i risultati a cui ha portato una politica incapace di difendere e far avanzare la qualità urbana nelle trasformazioni urbanistiche. Restringendo lo sguardo agli interventi sulle grandi aree dismesse, possiamo distinguere tre fasi, ognuna contrassegnata da una o più realizzazioni paradigmatiche.

A rappresentare la prima fase è Pirelli-Bicocca, che a Milano ha inaugurato la grande stagione di recupero delle aree industriali dismesse (con un antefatto nella metà degli anni cinquanta: la trasformazione del grande lotto lasciato libero dalla Bianchi in viale Abruzzi). Alla Bicocca si è sbandierata la messa in campo di principi ordinatori riconducibili alla città ottocentesca. Ma l’esito è deludente; se quella scelta ha consentito a Pirelli Real Estate di condurre a termine con successo un’operazione immobiliare di vaste proporzioni, la città si è ritrovata con una versione micragnosa e speculativa del modello: isolati monofunzionali e assenza di attenzione ai piani terra e alla vitalità degli spazi pubblici. Per non dire della mancata messa a frutto di una presenza preziosa come l’istruzione superiore, il cui campus avrebbe potuto fare da cardine del nuovo quartiere in una integrazione fra università e città.

La seconda fase vede al centro gli interventi di recupero delle aree ex-OM (Ripamonti), Innocenti, Portello e dello Scalo di Porta Vittoria. Mentre il fallimento di quest’ultimo è sotto gli occhi di tutti – un naufragio non imputabile solo alla mancata realizzazione della Beic (la Biblioteca europea di informazione e cultura) ma a improvvide scelte di disegno urbano –, negli altri tre casi è andata in scena la ristrettezza di vedute dell’immaginario immobiliarista: l’insofferenza del marketing urbano verso forme insediative complesse e integrate, capaci di riannodare i fili della vicenda urbana innovando. Il risultato è il ritrarsi della residenza in edifici solitari tenuti insieme da brandelli di verde e giustapposti a centri commerciali. Una riprova, se ce n’era bisogno, che con l’egoismo non si fa città.

La terza fase è dominata dagli interventi di Porta Nuova e CityLife, operazioni in cui, all’importazione di modelli internazionali – a Milano dirompenti verso il contesto fino all’insulto –, si mescolano, nella parte residenziale, forme più o meno camuffate di gated communities. Al salire di livello degli investimenti con l’ingresso di capitali internazionali, è cresciuta la spinta a operare per oggetti solitari e fuori scala, incapaci di interazione con l’intorno al punto che gli stessi spazi aperti verdi richiedono una sorveglianza speciale. La tecnica delle costruzioni e degli impianti, che nei complessi terziari sembra pervenuta a un suo vertice, mostra tutta la sua sterilità quando viene lasciata a sé stessa, con un esonero di fatto dell’architettura: l’incapacità a dialogare con le preesistenze e con la storia, ma anche a costruire nuove narrazioni. Che per il “fare città” sono condizioni essenziali.

La fragilità, messa in evidenza dal Covid-19, di quanto sembrava vincente e invincibile – ma anche il fiume in piena del telelavoro – sta dicendo che il re è nudo.

Quantunque sommario, il quadro non può non comprendere tre progetti rimasti sulla carta e che portano altrettante firme prestigiose: Renzo Piano per le aree ex Falck di Sesto San Giovanni; Norman Foster per Santa Giulia (le aree ex Montedison ed ex Redaelli a Rogoredo); Rem Koolhaas per l’area dei gasometri a Bovisa. Un’esasperazione del modello lecorbuseriano, nel primo caso; l’inseguimento di un complesso residenziale esclusivo, nel secondo; un divertissement fine a sé stesso, nel terzo. Modalità a loro modo paradigmatiche, come paradigmatico è il loro fallimento sul piano commerciale (che poi per questi progetti, e per i loro promotori, è tutto).

Per intanto, grazie a questi insuccessi, Milano e Sesto San Giovanni hanno scampato altri pericoli. Tra progetti realizzati e fallimenti, è delineato con sufficiente completezza il campionario – concettuale e pratico – con cui Milano potrebbe apprestarsi ad affrontare la grande sfida del recupero degli scali ferroviari.

Se Milano – chi la governa, chi la abita, chi la usa – non sarà in grado di trarre bilanci e di correggere la rotta, il declino della qualità urbana e di quel che resta del “più bel fiore” della pianura (Giovanni Verga, 1881) è già tracciato.

Giancarlo Consonni



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  1. Pierfrancesco SacerdotiCaro Giancarlo, complimenti per il tuo articolo. Ho apprezzato in particolare l’ultima parte, in cui individui le tre fasi dei progetti sulle aree dismesse e analizzi i progetti realizzati e quelli abbandonati. Alla fine si salva poco o nulla. E del quartiere del Portello cosa pensi? Io salvo qualche edificio, in particolare quelli “stile Caccia” di Zucchi, ma lo schema generale mi sembra carente. Disegno urbano debole e soliti ingredienti, rigorosamente separati tra loro: residenze convenzionate, residenze di lusso, uffici, centro commerciale, "pseudo piazza" e giardino pubblico. Distanziamento sociale ante-litteram…? Un caro saluto, a presto
    20 maggio 2020 • 02:07Rispondi
  2. Maurizio GiufrèL'articolo di Giancarlo Consonni su #ArcipelagoMilano mette a nudo i limiti del modello urbanistico di Milano che continua ad essere sostenuto dagli indirizzi e dalle norme del #PGT, dagli interessi di investitori istituzionali e privati, ma soprattutto da un ristretto e influente numero di professionisti collegati agli interessi immobiliari. Finché #tecnocrazia e #finanza viaggiano insieme sarà complicato definire nuove strategia sia per Milano sia per la sua area metropolita che vi gravita intorno. La pandemia di #Covid19 ha mostrato tutti i limiti dell'urbanesimo meneghino replica di tipologie e organizzazione degli spazi estranei alla storia e alla tradizione urbana milanese. Densificazione, #gentrificazione, riduzione delle aree pubbliche, sono elementi che non soddisfano le strategie di #resilienza urbana che al contrario hanno nella riduzione delle emissioni, dei consumi e degli sprechi il fulcro per garantire una vita migliore ai cittadini.
    20 maggio 2020 • 11:04Rispondi
  3. Oreste PivettaCaro Giancarlo, bellissimo articolo il tuo, un articolo che induce a riflettere sulla storia e sul presente della città. Però ti confesso che da "consumatore" e non certo da "tecnico" della città mi manca qualcosa, mi manca un "che fare?", urgente tanto dal punto di vista della forma urbana quanto della politica. In questo senso mi chiedo e chiedo: Porta Nuova e Citylife, accomunate sotto segno della speculazione, non sono due operazioni diverse, una diciamo monumentale/teatrale, l'altra certo altrettanto monumentale/teatrale ma con uno sguardo un poco rivolto anche alla socialità (non solo in chiave consumistica/narcisistica)?
    21 maggio 2020 • 13:05Rispondi
  4. Giancarlo ConsonniCaro Oreste, Porta Nuova e Citylife sono gli avamposti di una mutazione genetica della città. La città che abbiamo ereditato dalla storia vede un equilibrio e una stretta interazione fra la sfera privata e quella pubblica. O, se vogliamo, tra rifugio e relazione (Ildefons Cerdà). Decisivo è quel che accade nei piani terra, dove si realizza il grosso della coappartenenza fra le due sfere. Oggi invece vengono avanti grattacieli sigillati giustapposti a spazi verdi. Quando va bene la socialità si rifugia in "contenitori" separati. Viene a mancare la continuità della strada vitale (Jane Jacobs, Piero Bottoni) e della strada come successione di stanze a cielo aperto (Louis Kahn). Per non dire delle piazze come teatro della complessità. Nella mutazione genetica, che anche a Milano si è consentito che si innescasse nelle aree a elevata densità, c'è solo la giustapposizione di tecnica e natura: di oggetti presuntivamente perfetti sul piano tecnologico e di spazi verdi. La storia viene abolita. È il sogno del Le Corbusier urbanista: l'incontro di tecnica e natura in nome di un ritorno a uno stato primitivo sorretto dal conforto della tecnica. Solo che, come ha scritto Jurij M. Lotman, la tecnica è incapace, da sola, di produrre senso: è inchiodata all'istante assurto a fatto assoluto. Basti pensare che per Le Corbusier la città andava conformata sull'automobile, da lui considerata come il massimo della tecnica: una cosa che oggi nessuno più si sognerebbe di sostenere. Ma in nome di questo assunto di una povertà disarmante e della riconquista di una natura primigenia, pensava di rifare radicalmente il centro di Parigi, salvando solo pochi monumenti. La città che la storia ci ha consegnato, con le sue stratificazioni, è una grande affabulatrice e una grande suggeritrice di storie: di potenzialità del vivere. E una grande educatrice alla misura e alle buone maniere. Tutto l'opposto di Porta Nuova e CityLife, dove presenze narcisistiche esibiscono il nulla, se non uno sterile autocompiacimento, e sono del tutto incapaci di narrazioni. Ad andare in scena è una «somma solitudine d'animi» (Giambattista Vico). Mentre il verde è chiamato a nascondere questa regressione. Da ultimo: se in piazza Gae Aulenti nelle ore serali e notturne si spegnessero le luci della torre Unicredit, sarebbe come stare in un pozzo nero; quando invece le molte, mirabili piazze delle città italiane mantengono il loro fascino di giorno come di notte.
    21 maggio 2020 • 20:04Rispondi
  5. EugenioUn bellissimo articolo con interessanti riflessioni sul presente e per il futuro. Anche se mi chiedo come sarà mai possibile riuscire a invertire la rotta da questa deriva che ci fa vivere male e però, in molti casi, compiaciuti di questa modernità che taluni pretendono insostituibile (se non al prezzo di una rinuncia al progresso).
    31 maggio 2020 • 11:59Rispondi
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