8 maggio 2020

IN ATTESA DI UN NUOVO STATUTO DEI LAVORATORI

Un'idea di società svanita ma non irrecuperabile


Sono passati esattamente cinquant’anni dallo Statuto dei lavoratori e, partendo da quella data arrivando a oggi la politica del lavoro non ha fato certo progressi. Oggi il lavoro, molto diverso da allora, ha bisogno di una nuova riflessione.

ballabio

Lo sforzo alquanto vano di pronosticare un futuro più o meno prossimo mi pare equivalga alla fantasticheria di immaginare un presente “come avrebbe potuto essere”, partendo tuttavia dalla concreta esperienza di dati di realtà. Prendiamo come riferimento la ricorrenza dello Statuto dei lavoratori (legge 300 del 20 maggio 1970), giusto cinquant’anni fa.

Con esso si sarebbe aperto un decennio straordinario, portatore di basilari riforme in attuazione dei fondamentali principi civili, sociali e politici sanciti nella prima parte della Costituzione, nonostante la pesante cappa di piombo del terrorismo, le deviazioni para-massoniche e l’insidia di svariati sbandamenti estremistici.

Il riconoscimento del valore e della dignità del lavoro, fondamento della Repubblica democratica, non poteva che segnare l’avvio di una nuova fase storica, imperniata sull’affermazione dei diritti, e doveri dei cittadini i quasi tutti i campi d’interesse: dalla parità di genere alla scuola aperta, dal sistema sanitario universale alla sicurezza previdenziale, dalla regolamentazione urbanistica all’edilizia popolare, dall’umanizzazione del sistema penale all’abolizione della leva, dall’autonomia locale a un equilibrato decentramento regionale.

L’origine di tale rivolgimento è ascrivibile al biennio precedente, all’incontro tra la spontanea sollevazione del ’68 e l’organizzata riscossa politico-sindacale del ’69, culminata con l’autunno caldo dei metalmeccanici, alla quale chi scrive ha avuto la ventura di partecipare dall’interno di una delle fabbriche “fordiste” per eccellenza (la Singer di Monza, meccanica di precisione) e assistere a una doppia saldatura culturale e sociale prima che rivendicativa e sindacale.

Da un lato l’intesa tra lavoratori non qualificati meridionali e aristocrazia operaia autoctona. La direzione aziendale aveva provveduto- in previsione dell’autunno – ad assumere numerosi neo-immigrati durante l’estate, contando sulla prevedibile debolezza e docilità. Al contrario proprio da questa incerta fascia umana sarebbe scaturita la forza d’urto della lotta e l’espressione di nuovi validi leader sindacali, che avrebbero riscosso il consenso e il seguito dei più anziani operai specializzati, infine solidali e riconoscenti verso “i teruni” dapprima non proprio ben visti!

Dall’altro lato la saldatura tra operai, tecnici e impiegati che per la prima volta aderiscono a scioperi e manifestazioni. L’inquadramento unico era infatti, con la riduzione dell’orario a 40 ore settimanali, l’aumento di 100 lire/ora uguale per tutti, diritti e libertà sindacali all’interno della fabbrica (più un prezioso incentivo di ore retribuite per gli studenti-lavoratori) un punto essenziale della piattaforma che avrebbe portato a un contratto modello per tutto il mondo del lavoro.

Di lì a poco l’approvazione della legge, con la firma del ministro socialista Brodolini e la benevola astensione del PCI, per garantire erga omnes un’equilibrata tutela della parte più debole del rapporto di lavoro dipendente, non essendo allora neppure immaginabili le forme di precarietà e parcellizzazione globale oggi ricorrenti.

Tuttavia il “decennio breve”, magico e tragico, si sarebbe presto esaurito con l’assassinio di Aldo Moro e la prematura scomparse di Papa Luciani, l’avvento sulla scena mondiale della signora Thatcher e di Ronald Reagan, l’improvvida invasione sovietica dell’Afganistan, che avrebbero cambiato i connotati alla storia di questo paese e del mondo intero.

Per altro le pur audaci riforme dell’epoca furono condotte in regime di contenimento della spesa (col severo controllo di Giorgio Napolitano, “ministro ombra delle finanze” per conto del PCI) mentre inflazione e debito pubblico sarebbe esplosi nel decennio successivo, finita l’unità nazionale, con la smodata presa di potere da parte del CAF (Craxi-Forlani.Andreotti).

Il segno politico sostanziale di quella fase fu comunque improntato al pensiero ed all’azione di Enrico Berlinguer, orientate a indicare un diverso modello di sviluppo, nel quale parole come “austerità” e “consumi sociali”, insieme ad una concezione alta e onesta della politica, potessero transitare verso una società più equa e solidale, pacifica con sé stessa e con l’ambiente. Visione tuttavia sconfitta, anche dentro il suo partito, e rovesciata nel quarantennio successivo sino alle odierne conseguenze.

Ed ora? La storia non si ripete ma qualche riflessione, nella inedita ed inopinata situazione attuale, potrebbe pure evocarla e provocarla.

Valentino Ballabio



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  1. Gianpiero simeoneSono convintissimo di quanto scritto , in maniera puntuale,da Valentino Ballabio,spero che l'articolo venga letto anche da giovani lavoratori ,oggi purtroppo ,e perfortuna non tutti,ingolositi dal guadagnare tanto e subito .ricordo a costoro un vecchio slogan di un grande leader sindacale "LAVORARE MENO LAVORARE TUTTI.
    13 maggio 2020 • 08:58Rispondi
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