21 aprile 2020

PER IL DOPO-CRISI DI MILANO NON BASTERÀ LA PAROLA D’ORDINE “RIPARTIRE”

Come si ricomporranno le forze migliori della città?


Una carrellata sul recente passato di Milano uno sguardo sulla capacità della città di ritrovare le sue forze migliori senza l’animo giustizialista di chi cerca le responsabilità degli altri per scansare le sue future.

Fotografia di Nicolò Maraz

Fotografia di Nicolò Maraz

In giorni in cui tutta l’informazione e tutta la conoscenza passano virtualmente dai nostri devices e non dallo stare fisicamente nei luoghi, quelli abituali o quelli degli “eventi”, che sono sospesi fino a tempi oggi non certi, il rapporto con una città al tempo stesso nativa ed elettiva (perché ci sono ritornato vent’anni fa riscegliendola) potrebbe apparire più rilassato, più distaccato, più astratto.

Ma, giorno per giorno, mi accorgo che non è così. Non siamo rilassati, non siamo distaccati. Abbiamo vissuto la città – ormai per molti anni – come una metamorfosi della volontà e non del caso. Come una trasformazione progettata, anche se un po’, ovviamente, assecondata dal destino. Come un’uscita lenta e costante dalla malmostosità di fine secolo (allora scrissi un libricino di note, prese proprio nel “ritorno”, che s’intitolava “La capitale umorale”), per liberarsi dal cattivo umore, dalle delusioni (Malpensa, Olimpiadi, eccetera) e imboccare la via delle vocazioni.

Forse l’espressione è un po’ roboante. Ma per dieci anni, nel nuovo secolo, il nodo “vocazionale” (da dove veniamo, dove vogliamo andare, quali eredità identitarie ci porteremo dietro, eccetera) ha riguardato tanti di noi. Ci ha fatto stringere attorno a progetti. Ci ha sollevato da terra in una famosa sera liberata dai temporali, nel 2011, con due arcobaleni apparsi in cielo, sotto le note di “Messico e nuvole” che tutti cantavano con la nostalgia di Jannacci ma anche con l’idea certa che ci sarebbe stata una nuova “narrativa”.

Sì, una narrativa erede di un ‘900 intelligente e spiritoso, disinibito anche se un po’ provinciale, caparbio ma appassionato. Quello dell’etica più forte dei milanesi, l’etica del lavoro.

2010-2016, una corsa a provare tutte le piste.

Per esempio vedere se una nuova borghesia progressista era in grado di fare ricambio nella classe dirigente insieme alle ibridazioni sociali, culturali ed anche etniche di un cambiamento visibile. Vedere se si ripigliava il nesso tra il nostro localismo e il mondo (il glocalismo di Piero Bassetti diventato paradigma).

Vedere se ‘sto benedetto Expo diventava progetto condiviso dopo essere stato un po’ divisivo. Vedere se la crescita dava i resti anche per riprogettare una certa unità d’Italia. Consolidare il rapporto paritario in Europa e nel mondo grazie alla lunga serie delle cose che chiamavamo “eccellenze”. Nessuno di noi – di destra o di sinistra, tifoso o antipatizzante – avrebbe derubricato per principio la sanità da quelle eccellenze. Con la voglia di fare bouquet, di sentirsi progetto integrato di una sorta di nuova estetica, di nuovo umanesimo capace di fare evolvere la radice della cultura “industriale” nel destino “industrioso” della creatività.

Già, per quello ci ha appassionato il tema rigenerativo del “brand Milano”. Brand inteso come patrimonio simbolico, come identità, come “anima”.

Nessuna stagione così grande – attrazione, investimenti, crescita, PIL, successi, innovazione, riconoscimenti – può chiudersi in una figura, in una persona. Ognuno fa il suo pezzo di strada (tanto che finirò per riconoscere la saggezza di Giuliano Pisapia, che sembrò una stranezza). Così come nessuno può ereditare un progetto così plurale e ridurlo al solo buon esito di Expo. Che ci fu e che lo fu per merito di una filiera che ha funzionato e che ha dato a Beppe Sala la condizione per provare a consolidare pragmaticamente gli esiti di un cambiamento dovuto a tanti fattori e tante persone che qualcuno doveva tenere a bada con caparbia operatività.

Fin qui tutto in linea, nelle sue evoluzioni, nei suoi naturali cambiamenti, nelle sue condivisioni con un sentimento maggioritario della gente.

Ma era già tutto scritto il libro del futuro della città? Era tutto segnato il perimetro materiale e ideale di quel progetto “Milano 2030/2040”? Quello che qualche volta faceva capolino nei documenti ma che poi si ricomponeva con la domanda, forte e contraria, di presente. Una domanda imposta da una crisi nazionale e internazionale (quella innescata nel 2008) e non del tutto ricomposta. E poi da un quadro politico nazionale antiurbano, antirazionale, antiborghese, che ha preso il largo da ciò che sarebbe servito subito alla nostra “Fase 2”: regia condivisa tra Milano e ltalia, gioco di squadra nello schema euro-mediterraneo, trasformazione metropolitana del nostro vecchio borgo.

Leggo proprio questa sera (mentre scrivo, sbirciando i giornali di domattina) Stefano Boeri che dice: ”Via dalle città. Nei vecchi borghi c’è il nostro futuro”. Esattamente il contrario di quel che immaginavamo si dovesse fare per consolidare la regia alla fase due di una città pronta a salutare una lunga storia di mezze misure e passare a un protagonismo non passivo nell’età della globalizzazione.

Così tante cose si sono frenate, tra cui penso che la più strutturale sia stata proprio il ripiegamento strisciante, persino poco generoso, di quella che avrebbe potuto essere una nuova classe dirigente (la “borghesia illuminata” l’avevamo già salutata…). Insieme a fenomeni più grandi di noi. Insieme alla crescente disunità nazionale. Insieme a un’insufficiente qualità progettuale della nostra pur importante Regione. Insieme soprattutto a un lievitare di ansie, divenute paure, di quel laborioso ceto medio in parte in perdita di reddito, poi di sicurezza, poi di fiducia nel futuro. Tutte cose più grandi degli interpreti di questa stagione. Dunque non ascrivibili né a colpe, né a errori. Che sempre si fanno quando si governa. Ma qui è la traiettoria stessa di percorsi più grandi dei piani tecnici di una comunità a dominare la scena del nostro tempo.

Ed è in questo cambiamento del palcoscenico che è calata la devastante azione di Covid-19.

Come una scure improvvisa, come un lampo imprevisto, come una mannaia espressione di quel “cigno nero” che più volte già nel ‘900 era calato su Milano annichilendo il presente e proponendo uno scenario geneticamente mutato. Dalla prima guerra mondiale che sotterrava l’europeismo tecnologico del primo Expo del 1906 al fascismo sansepolcrista che mandava a picco la democrazia liberale; dalla fascistizzazione popolare della città alle bombe alleate sulla popolazione inerme e persino sulle guglie del nostro Duomo; da piazza Fontana esplosa alla fine del brivido del ’68 al terrorismo radicato nelle pieghe stesse della borghesia cittadina.

Spero che non ci si perda in meschini processi per il pur costoso disorientamento dei primi giorni dell’epidemia, che ha coinvolto tutti i livelli di governo, internazionale, nazionale, regionale, locale. Non è questo il momento. Milano però è in testa alla diffusione dei contagi (questa sera più di 16 mila) ed è in testa alla conta dei morti, con ogni famiglia ormai in cui c’è una storia lontana chilometri dalla qualità sociale e sanitaria di quell’eccellenza cui abbiamo con convinzione dato credito. Non tutto ha funzionato.

Noi non possiamo riacchiappare – come ogni volta Milano ha fatto, dopo i disastri accennati – il percorso virtuoso, che sarà cosa che succederà, semplicemente scotomizzando questa storia e rimettendo in fila la corsa della città per gli aperitivi, le sfilate di moda, le cerimonie di laurea con i parenti spesso venuti da lontano, l’eventistica dello spettacolo e dell’enogastronomia di lusso (quanto ci metteremo a rifare solo e semplicemente la piccola eventistica dello stare insieme nei nostri cari vecchi luoghi di spettacolo?).

Ai milanesi è ben chiaro il significato semplice e simbolico del “tornare a tirar su la claire”. Ma è anche chiaro quello che ha ricordato l’arcivescovo Delpini in occasione della Pasqua: “Nelle disgrazie si può uscire migliori ma anche peggiori. Non basterà tornare a correre per correre, senza la comprensione più alta di quello che sta succedendo”.

Non riacchiapperemo il senso filosofico di pensarci con un destino raccontabile se non proviamo, con una certa umiltà, senza rancori e polemiche, soprattutto senza gli autocompiacimenti troppo diffusi nel recente passato, senza specularci su politicamente o per rancorosi dissapori, a ridisegnare la storia dell’ingresso di Milano nel nostro nuovo secolo, con le forze e con le fragilità che conosciamo.

Per ritrovare quel civismo che credevamo più forte di quello che è, quel solidarismo che forse è più forte di quel che si è visto negli ultimi tempi, quella progettualità vocazionale, che forse ha ancora credito sufficiente tra gli italiani (il nostro grande Mezzogiorno, rappresentato a Milano da generazioni) e dagli europei (oggi divisi su quasi tutto). Se è vero che il cratere della crisi economico-occupazionale che si sta aprendo potrebbe venire aiutato dal forte risparmio privato delle famiglie, Milano deve avere un progetto finanziario e sociale da riprospettare autorevolmente perché esso si esprima. Ma sappiamo che questo non è un “piano tecnico di investimenti”. E’ un piano culturale e civile di partecipazione garantita dalla fiducia.

In più c’è un ascolto interno della città, dei suoi quartieri fragilizzati, delle sue periferie (che dovremo tornare a chiamare con il loro nome) che vedono ancora presidi amministrativi responsabili in tanti ambiti e con tante persone capaci che sono in sella. Non ha senso qui fare in poche righe l’elenco di cosa serve a una città, dopo una devastazione. Arcipelago può raccogliere buone idee. Tra pochi giorni è il 25 aprile e, come sempre, un po’ di metodo potremmo riprendercelo dal rivisitare quella pagina di storia. Ma allora ci liberavamo da una storia “antica”, quella delle guerre e delle occupazioni. Oggi dobbiamo rigenerare un tessuto slabbrato dal salto di specie di un morbo mezzo sconosciuto che è entrato in modo lacerante sulla nostra già un po’ sfibrata forza progettuale.

Non bastano le parole d’ordine. O tanto meno una bella campagna di comunicazione.

Stefano Rolando



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  1. VincenzoIl problema di Milano: "Ciò che è (il meglio) non appare; ciò che appare non è (il meglio)!"
    22 aprile 2020 • 09:40Rispondi
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